La Nuova Sardegna

Sassari

Intrecci e cultura, Castelsardo vince

di Luigi Soriga
Intrecci e cultura, Castelsardo vince

L’orgoglio e le ambizioni di uno dei borghi più belli d’Italia. Riuscito mix turistico fatto di spiagge, musei e religione 

15 ottobre 2017
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CASTELSARDO. Le mani svelte di Zia Peppina continuano a intrecciare il cestino. Lo sa bene: in quel momento lei è solo una locandina in carne ed ossa, uno spot vivente di un’identità in estinzione. E infatti i turisti la osservano incuriositi, si soffermano su quell’arte che sa di storia, di antichi mestieri, di tradizione. Poi entrano e comprano una calamita cinese, con la foto aerea di Castelsardo, da 2 euro e 50.

«Al centro storico saremo rimaste forse in dieci – racconta zia Peppina – e in tutto il paese si contano al massimo 20 cestinaie. Tutte anziane, perché questa è un’arte che impari da piccola e che ha fatto il suo tempo». Sorride. «Lo vede questo? È un cestino che richiede una giornata di lavoro, e che puoi rivendere a 16 o 20 euro. Come posso chiedere a mia figlia di restare seduta 10 ore per guadagnare una miseria?». Ma per lei è stato diverso. «Eravamo 11 figli, poverissimi. A Castelsardo la miseria si tagliava a fette. I ragazzini facevano i pescatori e le donne a 13 anni imparavano a fare i cestini». E poi c’era il baratto a regolare i bioritmi dell’economia. Cestini, pesce e prodotti delle campagne. Sino agli anni 50 si sopravviveva così. Però quella maestria di annodare i fili e il tempo è una cosa che resta per sempre. I turisti ne subiscono il fascino, sanno di avere di fronte dei panda minacciati dalla globalizzazione. Insomma, zia Peppina con la sua reclame vivente non vende solo un cestino, commercializza un brand e una suggestione.

La stessa furbizia comunicativa, calata su scala planetaria, la sta applicando il sindaco Franco Cuccureddu. 52 anni, di cui 13 da primo cittadino, ha fatto di Castelsardo una meta internazionale. Ormai il 45% dei visitatori sono stranieri, in bassa stagione assai più della metà. E le provenienze sono le più disparate, da ben 89 diversi Paesi. In primis i francesi, con 18870 presenze, poi tedeschi, spagnoli, olandesi e i russi dal portafoglio pieno. Il segreto del successo è questo: pensare in grande. Secondo: Castelsardo non è un paese, è una città. E se proprio non si vuole erigere a tal rango questo ingorgo di case e vicoli appiccicati come patelle ad una roccia, allora va bene la parola borgo. Suggerisce cultura e bellezza.

Ed ecco come si trasforma un paesello che non aveva i soldi nemmeno per far ballare il povero, in uno dei borghi più belli e conosciuti d’Italia. Un riuscito esperimento di turismo, fatto di musei, esposizioni, eventi religiosi che destagionalizzano i flussi. Insomma, una meta internazionale. E i numeri sono questi: il Castello dei Doria ed il Museo dell’Intreccio Mediterraneo sono il sito culturale più visitato della Sardegna. Nel 2017 fino al 30 settembre, i visitatori paganti sono oltre 133.000 (circa 141.000 se si considerano le gratuità. «Numeri che fanno impallidire musei che costano un capitale allo Stato – dice Cuccureddu – come il Museo Sanna, il compendio garibaldino di Caprera, la cittadella dei musei di Cagliari, piuttosto che i musei di Alghero, Olbia o la reggia nuragica di Barumini». Poi c’è il bellissimo Museo sul Maestro di Castelsardo, nelle cripte della Cattedrale e infine l’ultima invenzione del sindaco: il nuovissimo MOG (Museo delle Origini Genovesi) fresco di inaugurazione col ministro dei Beni culturali Franceschini. Per ora, a dirla tutta, un racconto fatto di soli pannelli, ma una graziosa nuvoletta di fumo capace di espandersi ad amplio raggio, intercettando finanziamenti, allargando l’offerta. Tanto poi c’è una cosa di Castelsardo: è impossibile andare via delusi. È un luogo che, in ogni direzione di volti, è capace di saturare lo sguardo. A cominciare dal primo impatto, dalla curva di “l’imprunadda”, quando la bellezza di Castelsardo ti investe improvvisa in una sequenza da cortocircuito sensoriale: il porto, il mare, la roccia, le case, il castello. E poi, quando cammini nel cuore del borgo, arrampicandoti in un dedalo di strade fatte di pietra e fiori, ti volti e tra le case vedi inaspettati squarci di azzurro, come dagli oblò in mare aperto. E ancora le terrazze, che si affacciano sullo specchio turchese della baia della Vignaccia, o sulla cascata di massi e scogli di Lu Grannaddu, dove i papà gettavano i figli in mare per imparare a nuotare. E infine il golfo in formato 16/9 visto dalla vetta del castello, con l’Asinara, la Corsica, e l’isola Rossa a rifinire l’orizzonte. La natura ci ha messo molto del suo. Ed è per questo che i castellanesi sono innamorati del loro paese, ne sono fieri, con sfrontata immodestia.

Come zio Andrea, settant’anni ormai passati, muratore in pensione: se il centro storico è così suggestivo, un po’ lo deve alle sue mani. «Ho restaurato moltissime case – dice – la bellezza di questo posto mi commuove. Mi dispiace solo che il borgo antico si sia spopolato, da 3000 ormai siamo 150 residenti, perché i giovani non sono fatti per le salite, per le aree pedonali, e vogliono l’auto sempre parcheggiata sotto il sedere». Lui è la memoria di Castelsardo, conserva foto dei primi del 900, quando tutto era raggrumato dentro le mura. Ha scritto anche una poesia su Castelsardo, ce l’ha sempre nel portafogli, ne è molto orgoglioso.

Ma c’è un piccolo problema: ogni volta che comincia a leggerla, poi deve fermarsi a metà, perché il cuore gli fa brutti scherzi. La voce si strozza e finisce per piangere.
 

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