La Nuova Sardegna

Sassari

I nostri paesoni che si credono città

Umberto Cocco *
Un'immagine simbolo dello spopolamento (Cheremule, foto di Matteo Deiana)
Un'immagine simbolo dello spopolamento (Cheremule, foto di Matteo Deiana)

Mentre i piccoli centri si spopolano, i più grandi come Nuoro, Oristano, Macomer, restano inospitali

04 novembre 2017
3 MINUTI DI LETTURA





Ah, se gli oristanesi ricordassero che fra un anno sarà passato un secolo dalla fondazione della Società Bonifiche Sarde. Lo ricordassero a sé e agli altri, i ceti dirigenti di quella città, i ceti colti, saprebbero anche come afferrare meglio il bandolo del progetto urbanistico finanziato con alcune decine di milioni di euro dalla vecchia amministrazione Tendas e destinato a ridisegnare le periferie della città, i rapporti con il Tirso e gli stagni, il resto del territorio.

Ci riguarda tutti, questo dibattito? Per esempio: chi abita in un paese sulle sponde del Tirso, in collina, i paesi fra Barigadu e Guilcier, attorno all'Omodeo, o in Marmilla, se ne può impicciare? Perché non cattivi paesi, inospitali, abita questa umanità. O meglio: cattivi paesi, inospitali, solitudini, folclore quando va bene, abita questa umanità, ma anche e forse soprattutto frequenta cattive città. Inospitali e fredde piccole città, per parlare di quelle attorno a questo pezzo di Sardegna, da Nuoro a Macomer, a Oristano, appunto. Chiuse, ingenerose, speculative, attraggono burocrazia in crisi e famiglie che vengono in macchina a riempire il cofano a buon prezzo il sabato sera nei centri commerciali.

Bisognerebbe fare la controretorica dello spopolamento delle zone interne, qualche cenno c'era giovedì scorso a Oristano al convegno sul tema delle periferie, con Stefano Boeri e Renato Soru, e il coordinatore del gruppo di urbanisti della facoltà di Architettura di Alghero che ha preparato il progetto del Comune, Gianfranco Sanna. Oristano deperisce insieme ai paesi del suo Campidano, delle Marmille, e a quelli lungo il Tirso.

E rinascono dovunque in Europa, se rinascono a nuova vita, i sistemi urbani e le città estese al territorio, generose, non speculative, non chiuse, con funzioni produttive, centri culturali, scuole serie, biblioteche, contesti. Insomma, con un senso. Un senso lo ebbe, e che senso, il secolo delle bonifiche. Su molte questioni gli storici non hanno ancora raggiunto un accordo: sulla sincerità di quello sforzo riformatore e meridionalista da parte delle classi dirigenti liberali, sulla natura dei capitali della Banca Commerciale Italiana che mise insieme gran parte delle risorse, se fu colonialismo o no, se tutto si infranse nel fascismo e nel ruralismo antimoderno di Mussolini, e se si accese la scintilla dell'impresa privata sarda o fu tutto esterno, e i sardi misero manodopera dequalificata, e vite da sacrificare. Ci fu tutto questo, insieme, probabilmente.

Ma fu la prima grande modernizzazione della Sardegna, una vastissima area malarica venne risanata, il Tirso irreggimentato a monte con il lago Omodeo, fondata la società elettrica, costruito a valle un sistema di canali, sbarramenti, sollevamenti, drenaggi, e un terreno paludoso e malsano bonificato tra la piana e gli stagni, sino all'affidamento ai coloni dei poderi di Arborea. Così che la funzione medesima di Oristano è rinata lì, in quel contesto, una sua vocazione, a pensarci, anche se a un certo punto cinquant'anni fa il ceto democristiano scelse la burocratizzazione, il capoluogo di provincia. Scelta giusta, probabilmente. Ma presero il paesone e lo fecero slabbrare, ci si mettevano in proprio e direttamente anche i sindaci e i futuri presidenti di Provincia, a speculare sulle aree. Ma insomma, così è andata. Ed è un mezzo secolo.

E adesso? Adesso, è come se si dovesse ridefinire la città, impoverita di funzioni. Il Tirso è letto come un nodo strategico, che la avvolge a nord e per un tratto a oriente, con tutto il sistema delle acque sino alla laguna di Santa Giusta: ma forse non è un confine, non sembra fare più da confine, e da margine fuggito e scansato. Forse è lì la relazione con il territorio, lungo il fiume e le lagune e al di là di essi.

Anche guardarla in faccia l’agricoltura che tanto ne dipende da quell'acqua e che resiste, se resiste, all’agriturismo proliferato, e magari come reagisce con la pastorizia, che è scesa in pianura, migliaia e migliaia di capi, avendo lasciato la collina, anche la collina bassa.

* Presidente associazione Paesaggio Gramsci

In Primo Piano
Allarme

Bambino scompare all’imbrunire da un B&B di Martis: il paese si mobilita, trovato in campagna

di Mauro Tedde
Le nostre iniziative