La Nuova Sardegna

Sassari

La "resistenza" sarda, più racconto che teoria

Tommaso Gazzolo

L'INTERVENTO - A quali condizioni è possibile, oggi, reinventare quella “costante resistenziale” che rappresenta forse l’eredità più difficile da pensare di intellettuali come Pigliaru, Lilliu o Michelangelo Pira?

19 novembre 2017
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A quali condizioni è possibile, oggi, reinventare quella “costante resistenziale” che rappresenta forse l’eredità più difficile da pensare di intellettuali come Pigliaru, Lilliu o Michelangelo Pira? Birgit Wagner, in un saggio del 2011, ha individuato, riferendosi in particolare alla letteratura sarda più recente – da lei definita di tipo essenzialmente “postcoloniale” –, una serie di dispositivi e di tecniche narrative mediante i quali la costruzione dell’identità sarda passa per il racconto della propria storia all’interno di quella di un altro popolo “ex colonizzato” (la Cagliari “africana” di Giorgio Todde e di Aldo Tanchis, e, soprattutto, quella di Atzeni).

È come se non si potesse più parlare del popolo sardo – della sua “tradizione” – se non nel punto in cui esso si rende indistinguibile dal popolo maghrebino, popolo pellerossa, o da un popolo mai esistito. Non si tratta mai di “ricordare”, di recuperare un passato (che, come tale, non è mai stato). La resistenza “anti-colonialista” è quella del popolo sardo come minoranza, e quindi aveva bisogno di attivare una serie di dispositivi di «identificazione», di «territorializzazione» (il “Noi pastori”, la “comunità” barbaricina, etc.), di fare della minoranza uno «stato», una «condizione».

Oggi una resistenza può essere solo “postcolonialista”: resistenza, cioè, di un popolo che deve divenire ancora ciò che vuole essere. Per questo la Wagner si chiede: «Che cosa vogliono essere i sardi? Che cosa vogliono diventare?». Non si tratta più di “essere” una minoranza, di costituirsi come tale, ma di divenire-minoritari, di poter essere cioè più d’una minoranza, più di una identità.

Non è questione, semplicemente, di dis-identificarsi, di cessare di essere sardi, ma di sperimentare una nuova pratica in cui per identificarsi, per divenire-sardi, occorre dis-identificarsi, divenire il popolo, tutti i popoli, colonizzati nella storia (“tutti i nomi della storia”, come diceva Nietzsche). Questo è il tratto specifico, forse, della letteratura che è su posizioni più avanzate – e che fa di Atzeni il massimo scrittore in lingua italiana degli ultimi trent’anni (ci tengo a rinviare al bel libro “L’identità sarda del XXI secolo tra globale, locale e postcoloniale”, a cura di Silvia Contarini, Margherita Marras e Giuliana Pias, pubblicato da Il Maestrale nel 2012). Rispetto alla “costante resistenziale” tradizionale – quella, per intenderci, “identitaria” degli anni ’60-’70 (non a caso fortemente connotata da un lessico antropologico, di ricerca dell’identità “etnica”) –, l’invenzione di una nuova “resistenza” sarda forse dovrà passare, oggi, per una serie di pratiche di dis-identificazione (e ciò spiegherebbe perché il motivo antropologico sia stato sostituito dal discorso letterario, dalla narrativa).

Probabilmente è improprio parlare di una nouvelle vague sarda – perché sarebbe difficile trovare un tratto “comune” tra scrittori così diversi come Salvatore Niffoi e Michela Murgia, Milena Agus e Maria Giacobbe. Ma proprio queste differenze continue, che tuttavia non fanno che riprendersi all’interno della stessa “cultura” sarda, si devono forse al fatto che in tutti questi scrittori è presente il nuovo tema, postcoloniale, del “divenire-sardo”, contro il precedente “essere sardo”. Il tratto proprio di una nuova costante resistenziale postcoloniale sarebbe allora quello di una pratica di resistenza che non passi più per l’ “identificazione” (etnica, tradizionale, comunitaria, etc.), ma per l’apertura continua, e sempre rinnovata, ad alleanze con altri popoli minori – questo sperimenta Atzeni nella scrittura in cui l’italiano “diviene” creolo, e viceversa.

Ciò che ha segnato e segna la letteratura, è mancato tuttavia nell’elaborazione di una teoria e pratica politica “postcoloniale” sarda. Da questo punto di vista, sembra che il rinnovamento possa provenire proprio da una pratica di scrittura, anzitutto, a cui però dovrà affiancarsi una riflessione teorica e filosofica che sia all’altezza. E che sia all’altezza dell’eredità dei Pigliaru e dei Pira: il che non significa ripetere ciò che essi hanno detto, ma, al contrario, trovare il modo di rinnovare e reinventare – a costo di essere “infedeli” – le questioni che avevano scoperto.


 

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