La Nuova Sardegna

Sassari

«Marocchina e sarda, io qui mi sento a casa»

di MANOLO CATTARI
«Marocchina e sarda, io qui mi sento a casa»

La vice presidente della Consulta sull’immigrazione racconta la sua Sassari «Al mio arrivo non sapevo una parola di italiano, mi sono sentita accolta»

11 giugno 2018
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Sentirsi estranei in un posto in cui si è stranieri e lontani dalla propria casa. In Marocco una parola definisce questo sentimento: “ghorba”. Non ha un equivalente in italiano. Esprime un misto di emozioni: esilio, tristezza, nostalgia, ma nessuna di esse la descrive completamente.

D’altronde la più grande ricchezza che ci circonda è avere a disposizione nomi nuovi di emozioni che raccontano situazioni, storie e culture da tutto il mondo, direttamente nella nostra città. Cogliere maggiori sfumature emotive ci ricorda la complessità dell’uomo e delle possibilità della vita. Gli Inuit usano più di 25 parole per definire le varie sfumature di bianco. Noi no, ma questo non vuol dire che tutto il bianco sia uguale.

Perciò considerata l’aria che tira in Italia è arrivato il momento per un altro giro del mondo a Km zero con lo scopo di arricchire il nostro alfabeto emotivo.

Quando si viaggia capita che alcuni viaggi inizino bene dal principio, senti che saranno positivi e ti rimandano un senso di speranza e ottimismo anche prima di partire. Questa è la sensazione di questo viaggio in Marocco con l’intervista a Siham Benebou.

Trovo subito parcheggio in piazza Colonna Mariana (posteggio dell’ombelico del mondo) e una ragazza mi suona il clacson regalandomi il suo ticket di parcheggio non utilizzato. Così, reso fiducioso dall’amorevolezza e dalla cura dell’altro, incontro Siham che sa proprio di mamma.

Siham Benebou è una persona molto sorridente, solare e gesticola tanto quando parla. Oltre che “fare” la mamma , lei é mediatrice linguistica culturale. Vive da quattordici anni in Sardegna: arriva con un visto turistico e inizialmente vive a Ploaghe, dove la ospita una famiglia di amici. In Marocco, dopo la maturità ha fatto un corso di formazione in elettronica.

Una volta qui si laurea in mediazione linguistica e da anni lavora come mediatrice linguistica culturale: «Il mio lavoro non è solo nella traduzione, ma anche nella facilitazione della comunicazione culturale – dice –. Spiego come funzionano le cose qui, come si vive. Ad esempio, mi è capitato in ospedale di dover spiegare al personale che la persona era musulmana e quindi non mangiava maiale, o anche in tribunale, a volte devo spiegare alle autorità che la persona non è arrabbiata o agitata e che quello è solo il suo modo culturale di parlare».

Gli stili comunicativi e non tanto le parole sono spesso alla base di incomprensioni. Perciò secondo Siham bisogna lavorare molto nelle scuole secondarie: «É in quell’età – spiega – che i ragazzi possono avere un’idea personale e possono essere più consapevoli. In quell’età reagiscono più con la rabbia sul pregiudizio».

Appena arrivata in Sardegna non parlava italiano ed è rimasta affascinata e colpita da quanto i sardi siano accoglienti. Ricorda ridendo: «A Ploaghe ogni volta che passi salutano sempre con buongiorno o buonasera, è una cosa incredibile che mi è piaciuta tantissimo. Inizialmente per me era una cosa strana. Appena arrivata nel paese anche se non mi conoscevano, mi salutavano».

La presenza di Siham, tra l’altro molto attiva come vice-presidente della Consulta di Sassari sull’Immigrazione, non consente solo a lei di conoscere la Sardegna, ma anche a noi di incontrare il Marocco: «Chi ha viaggiato sa com’è, chi non ha viaggiato pensa ancora che ci siano i cammelli per strada, che ci sia un forte maschilismo e che le donne siano sottomesse. Invece io ho vissuto in una famiglia dove sono le donne a prendere le decisioni e nel mio paese ci sono molte associazioni che lottano per la loro emancipazione».

Quando si va oltre il pregiudizio, Italia e Marocco, non sono poi così diverse. Siham non trova molte differenze tra le due culture neanche sul piano educativo: «i problemi che affrontiamo sono simili».

Un aspetto su cui in Marocco si pone molta cura è il valore della carità. «Quando ero piccola – racconta Siham –, per insegnarmi questo valore, mia madre usava darmi in mano del pane per darlo ai bisognosi, in modo che capissi in prima persona cosa volesse dire fare del bene». «Nella cultura islamica – è la spiegazione – questo gesto prende il nome di nome di zakãt, per cui per “purificare” la propria ricchezza si preleva una parte dei propri beni per darli a chi più ne ha bisogno».

Grazie As-salãmu ’alaykum (la pace sia con voi in arabo) o più semplicemente come ti dicevano a Ploaghe, “Buongiorno”.

Marocco, 2000 km da Sassari a km 0.

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