La Nuova Sardegna

Sassari

Annino Mele: «Dopo l'odio si può rivivere»

Luca Urgu
Annino Mele: «Dopo l'odio si può rivivere»

Intervista esclusiva all'ex bandito ora scrittore: «Prima avevo sempre la pistola in tasca. Il passato non te lo puoi scrollare di dosso, ma penso a come riparare». Mamoiada? «Ormai è cambiata, si è evoluta e se lo merita»

10 luglio 2018
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CAGLIARI. La pelle di bandito l’ha persa tanti anni fa, l’immagine di quel ragazzo che ci hanno consegnato le istantanee in bianco e nero con il viso olivastro, i capelli lunghi e vestito di velluto fanno parte degli archivi della cronaca nera e giornalistica di oltre trent’anni fa. Oggi non ha più nemmeno quei baffoni lunghi che gli cingevano il viso e che lo facevano assomigliare a un pistolero messicano della frontiera. In tasca non ha più nemmeno una pistola o un coltello a serramanico. Il suo cinturone di oggi è un marsupio con dentro un taccuino, una penna e un telefonino di vecchia generazione utile solo per telefonare, ma non per connettersi a internet. A parlarci, ad ascoltarlo, a osservarlo da vicino ma con discrezione Annino Mele, 67 anni, di Mamoiada, 31 dei quali trascorsi in carcere, 28 senza godere neppure di un permesso, si capisce che fa ancora fatica a interpretare la nuova realtà da uomo libero. Nonostante una serie di condanne per omicidi e sequestri di persona le cui pene superano il secolo, a fine aprile ha ottenuto la liberazione condizionale.

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Ora a Cagliari in una giornata di afa e caldo umido Annino Mele, viso abbronzato («sono stato qualche giorno in barca con un amico») racconta in un’intervista esclusiva a La Nuova Sardegna i retroscena di un’esistenza rocambolesca. Temi delicati come il rispetto per le vittime, il rapporto di amore con il figlio, vera ancora di salvezza, e l’umanità anche dietro le sbarre. E la pena dell’ergastolo, «pena ingiusta e che leva il respiro», la sua Mamoiada, l’amore per la scrittura, i pentiti e la voglia di essere di aiuto verso chi è stato più sfortunato.

[[atex:gelocal:la-nuova-sardegna:regione:1.17052671:gele.Finegil.StandardArticle2014v1:https://www.lanuovasardegna.it/regione/2018/07/12/news/il-sindaco-di-mamoiada-ho-scelto-di-dire-no-alle-logiche-della-faida-1.17052671]]Un provvedimento firmato ad aprile dal giudice di sorveglianza gli ha consentito di lasciare il carcere di Bollate. L’ultima tappa dietro le sbarre dopo essere stato trasferito da un penitenziario di massima sicurezza all’altro della penisola. Un peregrinare per le carceri di Lombardia, Piemonte, Marche e Sardegna.

Da allora è ospite nella comunità Il Gabbiano di Piona di Colico, ma da giugno ha ottenuto il permesso di stare in Sardegna fino a tutto luglio per affrontare delle cure ma anche per presentare in alcune località dell’Isola alcuni dei sette libri scritti in questi anni di detenzione.

Le uniche limitazioni che deve rispettare sono quelle di non uscire dalla casa di Cagliari che lo ospita prima delle sette del mattino e di non rientrare dopo le 23. Quando si trova a presentare un suo volume fuori dal capoluogo le disposizioni gli consentono di pernottare in quel luogo. È accaduto così a San Teodoro venerdì scorso quando ha parlato del suo scritto “Mai: l’ergastolo nella vita quotidiana” sulla condizione della condanna a vita o domani a Belvì quando invece presenterà il romanzo La sorgente delle pietre rosse, sulla sua adolescenza nelle campagne della Barbagia.

La libertà condizionale. Annino Mele aveva un ergastolo ostativo che sembrava potergli tarpare una volta per tutte le ali della libertà. Invece, per primo in Italia, ha superato uno dopo l’altro gli ostacoli giuridici. «Il percorso è iniziato nel carcere di Opera, quando venne realizzata una relazione sul mio percorso finalizzata all’uscita dal carcere con una serie di permessi. I primi li ottengo a Bollate quando il giudice di sorveglianza motiva l’esito favorevole del percorso leggendo le varie relazioni. Un permesso che arriva a distanza di sei mesi dalla mia prima istanza. Devo dire grazie alla dottoressa Roberta Cossia, il giudice di sorveglianza che ha studiato con scrupolo la mia situazione. È stata lei che ha sciolto il tappo dell’ostatività, che avevo per via di due sequestri e non per l’omicidio», racconta Annino Mele, «lo ha fatto con un ragionamento di tipo antropologico-giuridico individuando nel fenomeno dei sequestri di persona a scopo di estorsione di matrice sarda una logica criminale differente dell’associazionismo malavitoso della mafia, della camorra e della ndrangheta. Quello è un legame permanente, invece i banditi sardi erano dei gruppi che si riunivano per realizzare questo tipo di reato per poi sciogliersi. La sua è stata una decisione di grande coraggio e che dà valore al suo essere magistrato e al concetto di giustizia riparatoria rimanendo sia dentro il codice che dentro la costituzione». Quello che appare davanti al cronista è un uomo riflessivo, sorridente e a tratti anche ironico. Pesa con estrema calma le parole soprattutto quando gli argomenti diventano più delicati e deve tornare con la memoria indietro nel tempo. I fotogrammi che gli passano per la mente non sono di sicuro a colori. In particolare quando si parla delle vittime dei suoi crimini e di un percorso che magari avrebbe voluto diverso.

Sulle vittime. «Spero di avere ancora del tempo per ricucire gli strappi. Se fino a oggi sono stato riservato è soprattutto per rispetto e delicatezza nei confronti delle vittime e dei loro congiunti. Non rientra nella nostra cultura, almeno non con quella modalità. Bisogna conservare rispetto e delicatezza. Io non ho fatto questo percorso soprattutto per rispetto e delicatezza nei loro confronti. Avvicinarmi oggi a distanza di tanti anni per una mia esigenza mi sembra troppo comodo, direi egoistico. La nostra giustizia riparativa la si fa all’inizio. O subito o è meglio dimenticare, non si devono riaprire le ferite. A volte il tempo è la migliore cura per guarire». Quei capitoli bui della sua vita per cui è stato condannato all’ergastolo non si rimuovono facilmente. Se si guarda indietro vede frammenti di un’esistenza segnata fin da bambino dal seme della violenza.

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Il figlio. Nessuna intenzione di trovare vie d’uscita ma la consapevolezza di essersi preso in pieno le sue responsabilità. Certo l’Annino Mele ventenne e trentenne non è l’uomo riflessivo e pacato di adesso. Quello che si è attaccato alla vita trovando nella scrittura, nelle poesie e nella pittura degli ottimi alleati, anche se la forza più grande l’ha avuta dalla vicinanza del figlio Graziano (avuto da Francesca, la sua ex-compagna svizzera) che ha sempre visto in carcere fin da quando quel bimbo ora adulto aveva appena 7 anni.

«Lui non è mai mancato. Sentivo di avere una forte responsabilità nei suoi confronti. Era sempre nei miei pensieri e mi dava una forza e una tranquillità incredibile. Oggi lui vive a Torino, è sposato, si occupa di vendere prodotti tipici dell’enogastronomia sarda. E spero mi dia la gioia di diventare nonno», dice Mele con dolcezza. «Con lui ho un ottimo rapporto basato sul rispetto e sulla massima fiducia. Anche lui può avere bisogno dei genitori come noi di lui».

I conti con il passato, quelli che l’Annino Mele bandito gli ha lasciato, non sono stati cancellati. «Quel periodo, seppure oggi mi sembri lontano, non è possibile scrollarselo, non si può cancellare come la scrittura in gesso su una lavagna. È ovvio però che penso al futuro e alle tante cose che vorrei e voglio fare anche in senso riparativo. Questo per me è molto importante. Per ora come volontario (in comunità ho realizzato un orto di cui vado molto orgoglioso) ma spero anche nella didattica. Allora si seguiva una logica comportamentale diversa, oggi in tasca ho il telefonino prima avevo una pattadese o una pistola. Cose assai diverse. Sto ancora cercando di decifrare la realtà esterna talmente diversa da quella di 30 anni fa. Io ero finito in una determinata situazione non proprio per scelta, mi rendo conto che sono stato fagocitato in un percorso di odio, di scontri tra famiglie, poi sicuramente ci ho messo del mio. La mia rabbia e il mio rancore nella spirale della vendetta erano diverse da quelle di mio fratello ad esempio. Ognuno aveva un suo modo di reagire a quegli eventi così tragici per tutti. Per me tutto è iniziato con la strage di San Cosimo (nel 1955 vennero uccisi tre nuoresi per errore appena usciti dal santuario). Mio padre, mio zio e mio cugino vennero arrestati e condannati all’ergastolo in primo grado e poi assolti. Erano tutti innocenti. Io, che allora avevo 4 anni, assistetti all’irruzione dei carabinieri in casa, alle urla e ai pianti delle donne. Vissi quell’episodio in modo traumatico, rimuginai a lungo negli anni. Nacque una sorta di odio e ribellione che è poi sfociata in tutto il resto. Da lì sono nati tutti i guai di Mamoiada», ricorda. Poi arrivò la stagione dei sequestri di persona e della latitanza e degli omicidi. «Il sequestro era una forma di autofinanziamento. Serviva, inutile negarlo, una copertura economica. Occorreva avere dei soldi perché ormai eri dentro a un ingranaggio che ti fagocitava e le spese anche impreviste non erano poche. Gli omicidi a volte erano una conseguenza, ma dietro non c’erano motivazioni economiche. Posso garantire che non avvenivano per una cattiva spartizione del denaro come si è spesso detto. Lo escludo in maniera categorica», rimarca deciso. Mele ha un’idea ben precisa anche sulla fine dei sequestri di persona. «Sono stati soppiantati da altri business criminali, tra tutti la droga. Nel 1976 noi non sapevamo nemmeno cosa fossero gli stupefacenti. Io sono talmente contrario a qualsiasi forma di uso e vendita che anche in carcere ne sono sempre stato lontano e se mi accorgevo che qualcuno vicino a me ne assumeva ne prendevo subito le distanze».

La paura. La paura è un sentimento che, dice, non lo ha mai sfiorato. Massima allerta soprattutto da latitante, prima per un anno poi per altri 5. «Non è una scelta semplice. Non sei ovviamente libero, anche se per me abituato da ragazzino a stare in campagna, a sapere come gestire caldo e freddo, non era difficile. La campagna era piena di gente più di oggi. L’ospitalità e l’aiuto non mi è mai mancato non tanto dal padrone ma dal servo pastore». Nessun timore nemmeno nelle carceri. Anche sui due tentativi di avvelenamento che lo avrebbero riguardato nutre forti dubbi. «Eravamo in parecchi in cella non è stato mai appurato che quel the con dentro il veleno fosse per me. Ma può anche essere».

Mamoiada. Seppure dal carcere ha sempre guardato con interesse al suo paese e all’innegabile percorso di crescita guardacaso coinciso proprio con la fine della sanguinosa faida. «Le giovani generazioni si stanno facendo largo per la mentalità imprenditoriale, poi c’è la cultura in vari settori che per fortuna avanza. Mi piace molto questa evoluzione. Mamoiada si merita questo sviluppo, intelligente e di grande dignità. Andrò a far visita al paese, a salutare qualche amico che è rimasto e a portare i fiori ai miei cari in cimitero. Ma oltre penso non andrò. Viverci non credo sia più possibile. Forse non mi troverei bene. A Mamoiada c’è stata una situazione di dolore, la mia presenza può essere ingombrante, non voglio apparire arrogante. Mi ero comportato così quando ero uscito dal carcere e farò così anche adesso. L’altro giorno a San Teodoro per la presentazione del mio libro sono venuti alcuni paesani. Mi ha fatto un piacere enorme. Spero di incontrarne altri anche domani a Belvì».
 

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