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Sassari

Partita di grano distrutta ma nessuno paga i danni

Partita di grano distrutta ma nessuno paga i danni

Il ministero bloccò per errore l’importazione di 468 tonnellate in arrivo dall’India. Per il Tar «sbaglio scusabile, colpa esclusa». Risarcimento negato alla Brundu srl

20 agosto 2018
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SASSARI. Passerà alla storia come una delle partite di grano più costose di sempre. E questo non tanto per i 175mila euro pagati dagli acquirenti ai venditori, il prezzo giusto considerata l’alta qualità del prodotto, ma perché neppure un chicco di quelle 468 tonnellate era stato macinato. Nel 2015, infatti, l’intero carico era stato distrutto dalla società Brundu srl, titolare dell’omonimo molino, nelle more di un contenzioso che la vedeva contrapposta al ministero della Salute che aveva bloccato l’importazione di una partita di grano duro proveniente dall’India.

Secondo i tecnici del ministero, smentiti dai consulenti della Brundu, in quei chicchi c’era una concentrazione di piombo superiore al limite stabilito dalla Comunità europea. Qualche tempo dopo era emerso che gli esperti ministeriali avevano eseguito campionamenti e analisi con metodologie difformi dalla normativa europea. Insomma, avevano sbagliato. Nonostante questo, nessuno pagherà per quell’errore.

A distanza di oltre tre anni da quell’episodio, nei giorni scorsi il Tar della Sardegna ha stabilito che il ministero non debba pagare neppure un euro di risarcimento danni alla società sarda.

I giudici della seconda sezione, presieduta da Francesco Scano, hanno respinto un ricorso della Brundu. La società, rappresentata dall’avvocato Matilde Mura, aveva chiesto mezzo milione di euro per rifarsi delle spese sostenute per l’acquisto del grano, per la sua distruzione, e anche per il danno di immagine subito.

La sentenza 743 del 2018 chiude il primo capitolo della vertenza risarcitoria avviata dal molino contro il ministero della Salute. I giudici del Tribunale amministrativo regionale hanno “assolto” il ministero. Secondo loro, i tecnici agirono in buona fede e, pur avendo applicato un regolamento comunitario invece di un altro, il loro comportamento non può «essere definito e caratterizzato in termini di colpa rilevante ai fini risarcitori».

Che la vicenda del grano indiano bloccato alla frontiera fosse controversa, hanno spiegato il 9 agosto scorso i giudici del Tribunale amministrativo, lo dimostra il fatto che ci furono due contrapposti verdetti: in primo grado il Tar aveva dato ragione al ministero della Salute, confermando il divieto di importazione del grano; mentre in secondo grado il Consiglio di Stato aveva dato ragione ai Brundu, annullando il provvedimento.

Nel frattempo era passato un anno e la società aveva fatto distruggere l’intera partita, diventata nel frattempo inservibile. A causa del tempo trascorso, infatti, il grano non poteva essere utilizzato né per diventare farina e neppure come mangime in zootecnia. «L’amministrazione è incorsa in un errore nella interpretazione della normativa – hanno scritto nei giorni scorsi i giudici del Tar, negando il risarcimento alla società Brundu –, ma tale condotta non può che configurarsi in termine di errore scusabile e, come tale, a escludere la colpa». Oltre che costoso e interamente sprecato, quel grano indiano mai diventato farina adesso ha anche il gusto amaro della beffa.

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