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Sassari

«Violenza sessuale in ospedale a Sassari: la mia vita rovinata»

di Daniela Scano
«Violenza sessuale in ospedale a Sassari: la mia vita rovinata»

Parla una donna vittima nel 2012 di abusi da parte di un barelliere. L’uomo è stato condannato a cinque anni di carcere

21 settembre 2018
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SASSARI. C’è un “prima” e c’è un “dopo” la violenza sessuale. E c’è la frustrazione che diventa cronica e ti avvelena la vita. Sara è piena di rabbia anche oggi dovrebbe essere soddisfatta perché ha vinto. «Sarà perchè l’esistenza di quella persona non è cambiata, mentre la mia è stata stravolta. Lui continua a lavorare in ospedale, io invece ho perso 15 chili, soffro di insonnia e di crisi di panico, nel mio lavoro ho perso l’ispirazione, nella mia esistenza ho smarrito la serenità».

I giudici della corte d’appello hanno appena condannato l’imputato. Sara coglie l’occasione per riempire di parole il silenzio degli innocenti. Nel suo caso, dice, «sette anni di processo e ancora non è finita».

Sara (non è il suo vero nome) racconta la storia di un abuso sessuale subìto nel 2012 in una stanza di ospedale. Una violenza per la quale la donna ha affrontato un percorso processuale arrivato nei giorni scorsi al secondo giro di boa. I giudici della corte d’appello hanno infatti confermato la condanna a cinque anni di reclusione di Pietro Falchi, 59 anni, sassarese, barelliere alle dipendenze di una coop che opera al Santissima Annunziata. L’uomo fa lo stesso lavoro del febbraio 2012 quando, trasportando Sara dal pronto soccorso al reparto di Radiologia, dove la donna doveva essere sottoposta a una Tac, secondo le accuse portò la paziente in una stanza e abusò sessualmente di lei palpeggiandola nelle parti intime.

«Avevo la febbre altissima e vomitavo – racconta la donna –. Ero in uno stato di semi incoscienza per una setticemia di cui non si è mai capita la causa, ma ricordo benissimo tutto di quei momenti». Sono trascorsi sette anni e due sentenze danno ragione. «Sono stata creduta per la seconda volta dai giudici – commenta – mentre la Asl non mi ha mai offerto una parola di scuse per ciò che mi è capitato in un luogo dove avrei dovuto essere curata e protetta. Non è stato così, aspetto da sette anni. So che la storia processuale non è finita. Ora c’è la Cassazione e poi, quando la sentenza diventerà definitiva, potrò avviare la causa civile per il risarcimento dei danni». Danni morali, racconta la donna, «conseguenze psicologiche devastanti che vivo ogni giorno sulla mia pelle, nel ricordo di ciò che ho passato in quei momenti. Ma è forte anche l’amarezza per il silenzio di chi avrebbe dovuto chiedere scusa e non lo ha fatto».

Sara non si riferisce all’imputato, ma ai suoi superiori che all’epoca della sua denuncia non presero le distanze dall’accusato. Se anche venne aperta una inchiesta interna sull’accaduto, le indagini si conclusero con il trasferimento dell’accusato in un altro reparto. «Quando raccontai quello che questa persona mi aveva fatto in una stanza del pronto soccorso, approfittando delle mie condizioni fisiche, lui mi controdenunciò accusandomi di calunnia – ricorda Sara –. Poco tempo dopo, la Procura archiviò e procedette nei suoi confronti. Sono trascorsi quasi sette anni e alla Asl questa storia è una pratica come un’altra. In attesa della sentenza definitiva, non mi hanno mai degnato di una risposta». L’ultima lettera di Sara è del giugno 2016 dopo la sentenza di primo grado, emessa dai giudici del tribunale di Sassari che aveva condannato Pietro Falchi a cinque anni di reclusione.

I giudici d’appello avevano inflitto al barelliere l’interdizione legale durante la pena e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici «e da qualsiasi ufficio attinente alla tutela e alla curatela e amministrazione di sostegno». Sentenza e pene accessorie confermate in appello. «Adesso mi preparo ad affrontare il processo in Cassazione – conclude Sara –. So che non è finita, non ancora, anzi non finirà mai. Subire una violenza sessuale ti cambia per sempre, questa è la verità».

©RIPRODUZIONE RISERVATA
 

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