La Nuova Sardegna

Sassari

Sorso, la mamma racconta la confessione del figlio: «Un giorno mi ha detto: lì mi picchiano»

di Salvatore Santoni
Sorso, la mamma racconta la confessione del figlio: «Un giorno mi ha detto: lì mi picchiano»

Le paure di un bambino che poi ha trovato la forza di denunciare i maltrattamenti nel centro educativo diurno

06 ottobre 2019
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SORSO. C’è un istante, in questa storia ancora tutta da chiarire, che soltanto una madre o un padre possono capire fino in fondo. È un momento preciso di un discorso di tre anni fa tra genitore e figlio che avviene nel tragitto verso il centro educativo diurno di Sorso: «Allora mà, guarda: adesso tu mi lasci lì e loro mi chiudono in una camera buia, e poi riaprono la porta quando tu torni a prendermi». È il momento esatto in cui sospetti e paure cominciano a diventare certezze, e spingono la famiglia di Chicco – il nome è di fantasia – a presentarsi dai carabinieri per denunciare i presunti maltrattamenti all’interno della struttura.

Avvisaglie. Il programma della giornata era abbastanza semplice: al mattino il bambino andava a scuola, poi usciva per pranzare in famiglia e, intorno alle 15, veniva accompagnato al centro diurno, dove restava per svolgere le attività fino alle 18. Tre ore che il minore ha imparato a odiare. «Piangeva a dirotto e non ci voleva andare – racconta il genitore – e pensare che insistevo affinché partecipasse alle attività programmate. Ora capisco il motivo di quei pianti…».

Primi sospetti. Tutto è cominciato parlando di un budino avariato. O perlomeno, questa è stata la giustificazione che il bambino dava ai genitori per dei misteriosi mal di pancia. L’unica cosa certa sono le nottate passate in bianco. «Il bambino era strano e aveva cominciato a stare male – riprende il genitore di Chicco –. Quando andava a dormire si sporgeva dal letto e cominciava a vomitare. La prima volta non abbiamo dato troppo peso alla cosa e gli abbiamo chiesto che cosa sentiva per cercare di capire, e lui ci ha risposto: “Mi danno il budino guasto”».

«Non si preoccupi». Trascorrono uno, due, tre giorni e il bambino continuare ad accusare sempre questo strano malessere. A quel punto, quando ancora i «metodi inappropriati» di cui parla la Procura nella sua inchiesta non erano nemmeno un sospetto, i genitori decidono di parlare con gli operatori del centro. «Ho proposto di portare direttamente io la merenda per il bambino – riprende il genitore – ma mi è stato risposto che non dovevo preoccuparmi, ci avrebbero pensato loro».

I giochi. Siamo ancora nella fase in cui il bambino non ha ancora vuotato il sacco con la famiglia, ma comincia a modo suo a comunicare qualcosa. «Un giorno a casa si è messo a cercare disperatamente un rotolo di scotch – spiega sempre il genitore –. E ci diceva: “Dammelo, dammelo, vieni che ti lego e ti metto sotto al tavolo”». A quel punto i due genitori passano dai sospetti a vere e proprie preoccupazioni. Anche perché questi racconti di certi “giochi” stavano cominciando a circolare anche tra le mamme e i papà degli altri bambini ospitati nel centro diurno. Alcuni genitori si lamentavano anche, ma alla fine nessuno aveva intenzione di adombrare teorie: il rischio era indispettire le assistenti sociali.

La denuncia. C’è un momento in questa storia in cui sospetti e paure diventano palpabili. «Un giorno mi si avvicina un bambino del centro e comincia a parlare – racconta ancora il genitore –. E a un certo punto mi chiede se mio figlio mi aveva raccontato quello che avveniva lì dentro e che gli facevano». È il momento in cui la famiglia di Chicco si accorge che le cose sono andate ben oltre le intuizioni iniziali, ma è ancora titubante per paura di sbagliare. Andare a muovere un’accusa del genere, cioè di maltrattamenti, è una cosa seria. Il bambino però inizia a cambiare atteggiamento: «Non sembrava più mio figlio, non stava facendo i compiti e lo vedevamo davvero strano». Fino a quando non decide di confidare un dettaglio che manda in bestia – e dà anche la carica – ai genitori: «Quando mi ha detto che lo picchiavano ci siamo detti: o andiamo in galera per vent’anni o cerchiamo giustizia. Lì abbiamo deciso di denunciare tutto ai carabinieri di Sorso. E pensare che mi avevano suggerito quel centro come un doposcuola interessante in cui il bambino avrebbe cominciato un nuovo percorso. Eravamo entusiasti, e invece è stato un inferno. Il bambino non l’ha ancora superata, non vuole dormire da solo e ha terrore del buio».

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