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L’ultimo salto di Umberto Serradimigni

di Andrea Sini
L’ultimo salto di Umberto Serradimigni

È scomparso a 84 anni il grande calciatore Negli anni 50 fu capitano di Torres e Cagliari

30 ottobre 2015
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SASSARI. «Zi soggu faraddu in un fossu e chistha voltha no n’èsciu». Il vecchio campione ha visto la fine arrivare e l’ha riconosciuta da lontano. Lui, che negli ultimi anni aveva superato alla grande due interventi chirurgici per la rottura di entrambi i femori, nei giorni scorsi aveva confidato di sentirsi come dentro un fosso, dal quale non sarebbe più uscito. Umberto Serradimigni si è spento all’alba di ieri, un mese prima del suo ottantaquattresimo compleanno. L’ex capitano di Torres e Cagliari, stella dell’atletica leggera isolana, ha marchiato a fondo - insieme alla sua famiglia - un intero secolo di sport sardo. Da suo fratello maggiore, Mario, alle figlie Nunzia e Roberta, passando per suo cognato, Marzio Lepri, bomber della della Torres. Una incredibile saga familiare tutta concentrata nel quartiere periferico di Sant’Orsola.

La famiglia. Nato a Sassari da una famiglia originaria dell’Emilia, “Umbertino” cresce nel mito del fratello Mario, classe 1914, stella della Torres arrivato a giocare in serie B con la maglia del Pisa negli anni dell’università. Il più piccolo dei due mostra sin da giovanissimo doti atletiche fuori dal comune. Leve lunghe, fisico da mezzofondista e muscoli da sprinter, Umberto si divide tra la pista e il campo da calcio. La Torres lo fa esordire in prima squadra appena sedicenne e l’anno successivo è già protagonista in serie C. «A metà stagione andammo a giocare in casa del Tivoli – raccontò di recente –. Loro primi in classifica e noi ultimi. Segnai due gol e pareggiammo 2-2. Al rientro a Sassari centinaia di tifosi ci attesero ai giardini pubblici e venni portato in trionfo. Avevo 16 anni e mezzo e quello resterà sempre il ricordo più emozionante della mia carriera».

L’atleta. Ala destra imprendibile, poi trasformatasi in mediano tuttofare, con un ottimo tocco di palla, Umberto faceva faville anche in pista: nel giro di pochi anni diventerà campione sardo di salto in lungo, triplo e staffetta 4x100, riuscendo peraltro a entrare nella top 10 isolana di sette diverse discipline dell’atletica, dai salti alla velocità, al mezzofondo. «Sono sempre stato bradicardico – amava raccontare – e avevo una resistenza alla fatica fuori dal comune. Ma anche a livello di esplosività non ero male: da ragazzino io e un compagno, il povero Enzo Tatti, morto giovanissimo, facevamo un gioco con l’allenatore. Lui con una sedia metteva una moneta sulla traversa della porta dell’Acquedotto. Noi dovevamo saltare da fermi e dire di che moneta si trattava. Il primo che indovinava se la portava a casa. Ci siamo fatti un sacco di spiccioli...». Si fece onore anche nella Penisola, con il fiore all’occhiello del terzo posto ottenuto nella gara di salto triplo al Gran Premio del Sud di Messina del 1950.

Il calciatore. A 18 anni è tra i protagonisti della cavalcata che porterà la Torres di Ermanno Latella a vincere il campionato sardo. Di quella nidiata fa parte un suo coetaneo, dotato di altrettanto talento: Vanni Sanna. Tra il 1953 e il 1955 Serradimigni segna 28 reti ed è in cima alla lista di molti osservatori. Il Cagliari fa un’offerta irrifiutabile e la Torres non può far altro che cederlo. Nel Capo di Sotto giocherà per ben otto stagioni (2 in serie C, 6, in B), facendosi apprezzare per serietà, impegno e - naturalmente - rendimento. Per due stagioni, dal 1961 al 1963, sarà protagonista di una accesissima e singolare sfida: lui, sassarese e capitano del Cagliari, affrontò per quattro volte la Torres nel derby. Trovandosi di fronte, al momento del lancio della monetina, suo cognato Marzio Lepri. I due giocatori avevano infatti sposato le due figlie del farmacista Tonino Maccari, presidente della Torres dal 1948 al 1957. Una saga familiare che appassionò l’intera isola e di cui i due giocatori, amici per la pelle - oltre che cognati - parlarono sempre con aria molto divertita. «Marzio quando giocava contro il Cagliari era una furia – rivelò Umberto – ci fece gol in tutti i modi». Nel 1963 Umberto fa la classica scelta di vita e torna alla Torres, con cui disputa un ultimo campionato in serie C.

La “seconda vita”. Appese le scarpette al chiodo ad appena 33 anni, Serradimigni partecipa al corso per allenatori di Coverciano ma nella sua carriera come tecnico non ha molta fortuna, anche perché nel frattempo ha iniziato a lavorare come insegnate di educazione fisica. Gli vengono affidate le panchine di Sorso, Ozierese, Ilva e finalmente Torres: l’esperienza all’Acquedotto, nella stagione 1977-’78 non andrà come forse sperava e dopo una decina di partite rassegnerà le dimissioni. Un decennio più tardi, nel 1988, il Panathlon club Sassari lo premia con l’Arciere, il riconoscimento più importante, “per essersi distino per l’impegno e per i risultati in attività atte ad esaltare i valori etico-sociali dello sport”.

Il dramma familiare. La genetica, in casa Serradimigni, fa la sua parte sin dall’inizio del Novecento. Grandi sportivi, di tutte le discipline. Il figlio Alberto è campione italiano di salto triplo nel 1988. Le due figlie di Umberto, Nunzia e Roberta, nel campetto di basket di Sant’Orsola imparano i fondamentali della palla a spicchi e presto approdano in serie A. Sono due vere stelle della pallacanestro nazionale: la prima partecipa alle Olimpiadi di Mosca 1980. Roberta, la più piccola, viene eletta miglior giocatrice del campionato di serie A. Ma nel 1996 un tragico incidente stradale avvenuto lungo la strada per Stintino portò via ad appena 32 anni la campionessa sassarese. Un colpo durissimo, dal quale Umberto non si riprese mai: dietro l’aria guascona e la battuta sempre pronta, rimase sempre un velo di profonda malinconia. A lenire in parte il dolore per la perdita della figlia, almeno l’orgoglio per la decisione del comune di Sassari (nel 2012, su richiesta di un gruppo di appassionati) di intitolare a Roberta, il palasport di piazzale Segni, oggi teatro delle imprese dei campioni d’Italia della Dinamo. Il nome dei Serradimigni, la famiglia sportiva sassarese per eccellenza, gira oggi per l’Italia e l’Europa grazie alla palla a spicchi.

Umberto “attore”. Nell’estate 2013, convalescente dopo il primo intervento per la rottura di un femore, Umberto Serradimigni prestò volentieri il proprio volto e i propri ricordi alla telecamera del regista Giuseppe Garau. Viso scavato dagli anni, mente lucidissima e battuta sempre pronta, il vecchio campione raccontò gli anni eroici dei derby Torres-Cagliari, dipingendo uno straordinario affresco del cognato Marzio Lepri, scomparso pochi mesi prima, e di Tonino Siddi, altra stella torresina dell’atletica. Nel film “Brevi storie sulla Torres”, pluripremiato nella Penisola, le sue testimonianze e il suo volto che buca lo schermo hanno un effetto dirompente. «Il femore? Vado a correre e mi passa tutto», disse in dialetto alla fine delle riprese, con il suo solito ottimismo. Un mese fa il ricovero in ospedale e i brutti presagi. «Stavolta dal buco non esco». Ieri se n’è andato.

L’eterno amico Marzio, c’è da scommetterci, l’ha accolto come ai tempi del derby di mezzo secolo fa: con un mazzo di fiori in mano. E un gagliardetto rossoblù.

@andreasini78

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