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Due anni fa lo scudetto: «Quella sera al PalaBigi una Dinamo imbattibile»

di Andrea Sini
Due anni fa lo scudetto: «Quella sera al PalaBigi una Dinamo imbattibile»

Il 26 giugno 2015 gara7 a Reggio Emilia con la vittoria del tricolore. Shane Lawal, uno dei grandi protagonisti, rivive quella magica notte

26 giugno 2017
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SASSARI. Shane Lawal, qual è il primo ricordo che le viene in mente a proposito di gara 7 a Reggio Emilia?

«Quaranta minuti. Solo quaranta minuti...».

In che senso?

«Per spiegare devo fare un passo indietro e partire da gara5. Le ginocchia mi facevano molto male, mi ero infortunato proprio verso la fine di quella partita (in cui fece 17 punti con 21 rimbalzi, ndr). Ho giocato gara 6 solo grazie alle medicine e all’adrenalina (25+16, ndr). Sono arrivato a gara 7 zoppicando. Ricordo che tra me e me dicevo: “altri 40 minuti, soltanto altri 40 minuti”.

Serie in parità, 3-3, la bella si gioca a Reggio Emilia e voi partite male: subito 21-4 per loro.

«In gara7 abbiamo giocato il peggior primo quarto dell’intera stagione, ma nessuno di noi era spaventato. Sapevamo che saremmo diventati campioni, ne eravamo certi. Ci siamo messi a giocare e siamo rientrati in partita, e poi c’è stata la svolta».

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Quando?

«L’incidente del tifoso di Reggio Emilia che ha messo le mani in faccia a Sosa. Ho preso per il braccio i miei compagni e ho detto: combattiamo alla morte per 10 minuti. Onestamente non so come ho fatto a finire la partita. Avevo un dolore così forte che in una delle ultime azioni mi sono fatto battere da Drake Diener senza riuscire a scivolare e chiuderlo o andare a stopparlo. Posso aprire una parentesi?».

Prego.

«Tutti gli infortuni che mi sono capitati nei due anni che ho trascorso a Barcellona sono figli di quanto mi è successo in gara 5. Sono stati due anni molto difficili per me, ma non mi pento di nulla. Quella vittoria resta una perla della mia carriera, una soddisfazione indimenticabile».

La differenza tra voi e loro era davvero minima. Cosa ha fatto la differenza?

«La forza, l’essere stati duri sino all’ultimo. Queste doti secondo me sono state sottovalutate, anche successivamente. Se guardi le tre vittorie ottenute da Reggio, non eravamo vicini nel punteggio. Se invece guardi le nostre quattro vittorie, erano tutte partite punto a punto con finali tirati. Questo significa essere duri. Sapevamo come vincere le partite. Sentivamo di essere la squadra migliore».

Quale è stata la chiave della stagione?

«La vittoria in Coppa Italia ha fatto la differenza, abbiamo capito di essere davvero la migliore squadra d’Italia. Nessuno era in grado di fronteggiare Milano come lo facevamo noi. Nessuno».

E per lei?

«Personalmente la prestazione di Madrid in Eurolega, seguita da quella con lo Zalgiris. Per me è stata quasi una rivincita, un riscatto: mi sono sempre sentito messo alla prova, come se dovessi costantemente dimostrare di poter giocare a certi livelli. Con quelle due prestazioni ho dimostrato a me stesso e a gli altri di essere uno dei migliori centri d’Europa. Forse non sono obiettivo, ma non ho mai sentito di avere il rispetto che meritavo, almeno sino alla fine. Penso che sia i media che i tifosi abbiano a lungo sottovalutato ciò che ho fatto per la squadra. Non ero e non sono soltanto uno che stoppa, schiaccia e prende rimbalzi. Controllavo la difesa, penso di avere fatto un grande lavoro tattico nel fare in modo che gli altri prendessero buoni tiri. E ho sempre fatto canestro tutte le volte che era necessario che lo facessi. Passavo per uno poco sveglio: credo che invece il mio quoziente intellettivo sia stato in qualche modo offeso».

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Lei oggi è comunque considerato una delle figure più importanti di quella stagione, anche a livello di spogliatoio.

«Il nostro spogliatoio era un luogo davvero interessante. Non penso di essere mai stato il leader. Ci rispettavamo tutti, l’uno con l’altro, abbastanza da far sì che ognuno fosse se stesso. Se c’era bisogno di dire qualcosa, allora lo dicevamo. Nessuno era un “grande fratello”. Forse lo erano Dave e Manu (Logan e Vanuzzo, ndr), ma loro erano entrambi leader silenziosi».

Meo Sacchetti e il suo staff: come sono riusciti a tenere uniti i fili di un gruppo così “effervescente”?

«La cosa migliore che Meo ha fatto è stata fare in modo che ognuno di noi fosse se stesso. C’erano tante personalità differenti, in quel gruppo, e lui ci permetteva di essere liberi. Questa cosa è grandissima, è stato il suo capolavoro».

Dopo i due anni al Barcellona, costellati di infortuni, cosa c’è nel suo futuro?

«Mi sento spesso con Stefano e Freddy (Sardara e Pasquini, ndr). Tornare a Sassari in futuro? Chi lo sa, mai dire mai. Quest’anno andrò come sempre ovunque mi porteranno i contratti, non ho problemi. Ma intanto il ricordo di quel trionfo resterà indelebile nella mente mia e dei miei compagni».

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