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La prima doppietta di Buba, profugo salvato dal pallone

di Antonio Ledà
La prima doppietta di Buba, profugo salvato dal pallone

L’attaccante della Torres racconta la sua odissea e i suoi due anni di Sardegna: «A casa non avrei avuto futuro, qui sogno di diventare un grande calciatore»

15 febbraio 2018
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SASSARI. Sul nome e la data di nascita non ci sono problemi. «Mi chiamo Bubacar Diouf e sono nato nel Casamance, una regione del Senegal meridionale, il 1 luglio del 1999». Qualche perplessità inizia a sorgere sul luogo di residenza. «Abito in una stanza del “Vialetto”, un hotel nella zona industriale di Sassari, ma la mia residenza è la comunità per minori “casa Gina” di Nulvi dove sono arrivato nel gennaio del 2016». La storia di Buba è simile a quella di mille altri ragazzi che hanno avuto la fortuna di raccontarla e di chissà quanti altri che non potranno mai farlo perchè vittime di una tratta infame e di un Mare Nostrum che, a volte, riesce a essere più spietato degli uomini. Buba ha sfidato le onde con il buio nel cuore per regalarsi un futuro diverso a quello che avrebbe potuto offrirgli il suo Paese. E lo spiega senza reticenze, con il sorriso di chi ha già realizzato il suo piccolo “sogno sassarese”.

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Perchè sei partito?
«Perchè dove abitavo io c’è stata una guerra e la gente fa fatica a andare avanti. C’è povertà vera e nessuna speranza per noi ragazzi».

Quanti siete a casa?
«Mio babbo, che fa il predicatore, mia mamma e sei fratelli. Sono rimasti tutti lì».

Chi ti ha convinto a partire?
«Ho visto come si vive in Europa e ho amici che avevano lasciato il Senegal per rifarsi una vita. Con qualcuno sono rimasto in contatto e sono stati loro a darmi coraggio. Devo dire che non è stato facile parlarne a casa e convincere mia madre. Ma io sono uno tosto e se mi metto in testa una cosa non cambio idea. Così ho cominciato a insistere, giorno dopo giorno, fino quando non ho avuto il permesso».

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Ci racconti il tuo viaggio?
«E’ uguale a quello di tanti altri ragazzi. Sono salito su un pullman, con quattro soldi in tasca e una busta di effetti personali. Ho attraversato il Mali, il Niger, il Burkina Faso e sono arrivato il Libia. Li sono finito in una specie di centro di accoglienza insieme a un sacco di gente che aspettava solo l’occasione per salire a bordo di un barcone».

Ci vogliono soldi e ci vuole un’organizzazione. Tu come hai fatto?
«Avevo dei riferimenti che mi hanno dato gli amici che erano già riusciti ad arrivare in Italia e una volta in Libia mi sono arrangiato. Ho lavorato per tre mesi come cuoco per mettere da parte i soldi per il trasporto. Non è stato facile ma alla fine è arrivato anche il mio momento».

Non hai avuto neanche un po’ di paura. Sai che il Mediterraneo ha inghiottito decine di carrette del mare come quella sulla quale ti stavi imbarcando?
«Sì, ma a quel punto vai avanti. Io ho pagato quanto mi era stato chiesto (mille dollari) e alle quattro di notte abbiamo preso il largo».

Come è stata la traversata?
«E’ andata bene. Alle 5 del pomeriggio siamo stati soccorsi da una nave di qualche associazione umanitaria e sbarcati nel porto di Cagliari».

Finalmente in Europa.
«A Cagliari ci hanno identificato e poi smistati in diversi centri di accoglienza. Io ero minorenne e sono stato portato a Nulvi nella comunità per minori “Casa Gina”. Non parlavo un parola di italiano ma devo dire grazie a tutti quelli che mi hanno dato una mano».

Che cosa centra il calcio con questa storia?
«C’entra perchè io sono scappato dal mio Paese con il sogno di diventare un grande calciatore. A Nulvi sono stato inserito negli organici dalla Don Bosco, una squadra locale con la quale ho fatto il campionato allievi Csi. Il calcio mi per servito per farmi conoscere e per fare le prime amicizie».

E il tuo arrivo alla Torres?
«La Torres aveva dei contatti con la Don Bosco e mi ha sottoposto a un provino. Poi è arrivata la proposta di indossare la maglia rossoblù nel campionato di Eccellenza. E’ stato un bel regalo anche se all’inizio abbiamo avuto qualche problema con il tesseramento perchè ero minorenne e con un permesso di soggiorno temporaneo».

Invece le cose si sono sistemate e anche bene. Arriviamo a domenica e al primo gol. Che cosa hai provato?

«Devo dire la verità. Il gol mi mancava e averne realizzato addirittura due in un colpo solo è una sensazione fantastica. Ho tolto la maglia e sono corso verso la panchina. Poi sono stato sepolto dall’abbraccio dei compagni».

Che rapporti hai con il mister e con i compagni di squadra?
«Devo dire ottimi. Siamo un gruppo molto legato e anche il mister è una persona speciale».

Hai degli amici sassaresi?
«Ho poco tempo per fare amicizie. Esco con i compagni di squadra e divido la camera con Scioni e Sarritzu. Arrivano dal cagliaritano e qualcuno ci sfotte dicendo che siamo tutti africani».

Hai toccato un tasto delicato. Hai mai subito insulti o, peggio, minacce razziste?
«Qualche volta sì. E’ capitato in campo, spesso, di essere apostrofato “sporco negro” ed è capitato anche in città. Qualche giorno fa un ragazzo è entrato nell’autobus dalla porta sbagliata - quella con il cartello exit – e ci siamo urtati. Mi ha insultato come se fossi stato io a sbagliare e a farlo apposta. Ho lasciato perdere per evitare seccature e perchè non so come sarebbe finita».

Ti pesano questi episodi. E quanto?
«Cerco di non pensarci. Chi ragiona in un certo modo lo fa solo per ignoranza».

Buba che cosa fai oltre che giocare a pallone?
«Ho ricominciato ad andare a scuola. Nel mio Paese c’è un sistema diverso. Qui mi sono iscritto alla terza media e alla fine all’anno dovrò dare l’esame».

Cosa vuoi fare da grande?
«Il mio sogno è quello di fare il calciatore. Non so se ci riuscirò ma già giocare con la Torres è una grande soddisfazione. Mi dispiace solo che ci siamo svegliati tardi altrimenti avremmo stravinto il campionato».

Dove può arrivare la squadra rossoblù?
«L’obiettivo minimo sono i playoff. Siamo quinti ma io sono sicuro che continueremo a recuperare posizioni».

Buba dopo quelli di domenica i tifosi si aspettano altri gol.
«Anche io. Il mister mi ha sempre detto di aver pazienza che prima o poi mi sarei sbloccato. Adesso non vedo l’ora di ripetermi».

Pensi di tornare un giorno in Senegal?
«Là c’è tanto da fare e sarebbe bello riuscire a dare una mano alla mia gente. Intanto sto già mandando qualcosa a casa. E anche mamma adesso è più tranquilla».

Tuo padre è un predicatore. Che rapporti hai con la religione?
«Sono islamico ma non frequento la moschea. Prego per conto mio e cerco di essere un buon fedele. La religione mi dà forza».

Cosa significano due anni di Sardegna?
«Significa aver imparato l’italiano e aver vissuto due anni come tutti i tutti i miei coetanei. Per chi ha visto quello che ho visto io non è scontato».

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