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Un fischio nella leggenda dall’Acquedotto al Filadelfia

di Andrea Sini
Un fischio nella leggenda dall’Acquedotto al Filadelfia

Giuseppe Fois 70 anni fa fu il primo arbitro sardo a dirigere una gara di serie A Dieci anni tra i pali della Torres, poi una lunga carriera nel grande calcio

28 febbraio 2018
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SASSARI. L’“antenato” di Antonio Giua indossava giacche eleganti su camicie dal collo inamidato e correva con passo sicuro, il fischietto stretto tra le labbra, al centro di arene leggendarie. Anni luce prima della Var, decenni prima dei replay ai quali manca solo l’angolazione da dentro la palla, un arbitro sardo dirigeva partite di serie A e si faceva rispettare sui campi di tutta Italia. Se il direttore di gara calangianese, che ha esordito sabato nella massima serie, è il primo grande fischietto sardo dei tempi moderni, il sassarese Giuseppe Fois è senza dubbio il padre putativo dei direttori di gara isolani. Un precursore, un apripista, ma prima di tutto un grande sportivo: lo testimonia il suo percorso personale nel mondo del calcio, durato quasi mezzo secolo, che l’ha visto indossare i panni di portiere, allenatore, dirigente sportivo, arbitro e infine dirigente e istruttore degli stessi arbitri. Il tutto passando dal polveroso Acquedotto al campo Testaccio, roccaforte della Roma, sino al leggendario Filadelfia, teatro delle imprese del Grande Torino.

Tra i pali della Torres. Quella di Giuseppe Fois è una delle tante storie sorprendenti delle quali è costellata la ultracentenaria storia della Sef Torres. Le prime impronte del futuro arbitro, nato a Sassari nel 1899, compaiono nei primi anni Venti. Il club rossoblù, attivo sin dal 1903 e vincitore del primo campionato sardo di calcio nel 1911, ha inserito nel suo organico Carlo Ferdinandi: si tratta del primo vero portiere della storia torresina. Competitivo anche in altre discipline (nel 1921 fa registrare il terzo miglior risultato italiano nel lancio del giavellotto), Ferdinandi ha il merito di “spiegare” il ruolo di estremo difensore al giovane Fois, che presto diventa titolare. Sono anni eroici: il pallone è duro e pesante come un macigno, i portieri parano a mani nude e, per proteggersi dalle insidie dei terreni di gioco disastrati, indossano robuste ginocchiere. Fois si impegna, ha senso della posizione e presto diventa capitano. Il suo unico torto, se così si può dire, è di non riuscire ad adeguarsi al livello dei campionati che la Torres sta via via andando a guadagnare. Commette qualche errore di troppo, dagli spalti piovono fischi e nel 1929, senza esitazioni né rimpianto alcuno, appende i guanti al chiodo. La Torres non lo lascia comunque andare e lo nomina dirigente.

La passione per il fischietto. Sono appena iniziati gli Anni Trenta e siamo solo a un terzo della appassionante e avventurosa storia sportiva di Giuseppe Fois. Il bello infatti sta per arrivare: da un momento all’altro l’ex portiere indossa i panni del direttore di gara. Inizia arbitrando qualche partita amichevole (Torres-Pro Modena, Torres-Fortitudo Roma), poi lascia Sassari per questioni di lavoro. Da direttore dell’Ufficio dei Contributi unificati (antenato dell’Agenzia delle entrate) viene trasferito a Roma. La sua carriera come arbitro decolla. La Torres, curiosamente, se lo ritrova davanti il 19 ottobre 1930, designato come arbitro della sfida di campionato contro la Roma B, all’Acquedotto. Né l’una, né l’altra squadra avranno da ridire sul suo operato. Significa che ci sa fare, che merita categorie importanti.

Il grande salto. Il 10 aprile 1938, dopo diversi anni di gavetta nelle serie minori, Giuseppe Fois calca per la prima volta il campo per una partita di serie A: esordisce a 39 anni in Lucchese-Bari, terminata 2-1. Gli impegni di lavoro non gli consentono di dedicarsi a tempo pieno al calcio, ma la sua carriera di arbitro continua tra serie B e C. Torna a fischiare in serie A l’anno successivo (Bari-Napoli), poi iniziano le soddisfazioni vere: tra il 1940 e il ’43 dirige più volte le gare delle corazzate del tempo: il Bologna, campione d’Italia nel 1940-’41, la Juventus di Carlo Parola, la Triestina, l’Ambrosiana Inter, il Livorno, secondo classificato nel 1943.

A braccetto con i campioni. Il 30 giugno 1940 la Roma organizza un’amichevole con il Livorno per celebrare la chiusura definitiva del suo storico impianto di gioco: l’arbitro che decreta il fischio finale sulla storia del campo Testaccio è Giuseppe Fois. Nella stagione 1942-’43 lo scudetto viene vinto da una squadra con la maglia granata che sta per entrare nella leggenda: il Torino. Fois dirige la gara giocata al Filadelfia e vinta a sorpresa dal Milan; fischia un rigore al Torino ma Romeo Menti se lo fa parare. Dirige ancora i granata a fine stagione contro l’Atalanta e annota sul suo taccuino i nomi dei quattro marcatori. Sono nomi che mettono i brividi: Gabetto, Ferraris, Loik, Mazzola. «Risultato giustissimo – scrive la Gazzetta dell’Emilia nel 1943 a proposito di un Modena-Brescia –, sancito dal fischio finale di Fois, un arbitro che si è fatto ammirare per l’energia con la quale ha diretto il difficilissimo incontro». Durante il periodo bellico, viene designato per diverse gare del “Campionato romano di guerra”, tra le quali il derby Roma-Lazio. Alla ripresa dei campionati, Fois è regolarmente al suo posto. Nel 1946 a San Siro (Milan-Pro Livorno) incrocia un altro sardo, Renato Raccis, di Mandas, primo grande bomber della storia del calcio isolano. Fois arbitrerà ancora in serie A sino al 1947 (ultima gara Genoa-Inter), totalizzando 45 presenze e togliendosi anche la soddisfazione di dirigere alcune amichevoli internazionali di grande prestigio, come Ujpest-Roma e Lazio-Rapid Vienna.

Dietro la scrivania. A fine anni Quaranta, dopo aver messo radici nella capitale, decide di ritirarsi e immediatamente viene inserito nei quadri dell’Aia di Roma, della quale negli anni Sessanta diventerà anche commissario straordinario. Senza dimenticare il suo passato, però. Tenne sempre un filo diretto con Sassari e la Torres, alla quale segnalò un attaccante in forza alla squadra dell’Aeronautica: “Prendetelo, è forte, si chiama Marzio Lepri”. E ancora per molto tempo, almeno un paio di volte l’anno, sugli spalti dell’Acquedotto poteva capitare di vedere il vecchio arbitro gustarsi le partite della squadra vestita di rossoblù, per la quale per anni aveva difeso la porta a mani nude.

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