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Marcello Lippi: «Io, i mondiali e Gigi Riva»

di Francesco Pinna
Marcello Lippi: «Io, i mondiali e Gigi Riva»

Il mister parla della nazionale e della vittoria azzurra del 2006: «Se uno aveva problemi lo mandavo da Gigi»

02 luglio 2018
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Per uno come lui vedere il Mondiale è come stare in un cinema a guardare un kolossal sapendo che hai già vinto l’Oscar. Marcello Lippi, settant’anni portati come Paul Newman, non rinuncia mai ai suoi riferimenti di una vita: pallone e mare continuano a fargli compagnia. Sempre. Col pallone è uno di quelli che ha vinto più di tutti, scudetti, coppe internazionali, Champions e tornei dei bar. E poi quella notte di Berlino, con il cielo dipinto d’azzurro a segnare il punto più alto di una carriera. Azzurro come il mare che per uno che parte da Viareggio e tocca i porti del mondo, è filosofia, è colonna sonora di una vita, è pace e solitudine.

Il mondiale delle stelle cadenti, l’azzurro sbiadito di un’estate senza notti magiche, Riva e la Sardegna, Gattuso e Del Piero, Bella Ciao e Mao Tze Tung, sono i temi di una chiacchierata a tutto campo con uno dei più profondi conoscitori del mondo del calcio. E il mare continua a fare da sfondo.

«A 70 anni – racconta Marcello Lippi - purtroppo bisogna tenere conto del tempo che passa, delle energie che calano. Bisogna dosare le forze. Meno immersioni, più attenzione nei movimenti. Ma la mia vacanza è il mare, sentire le onde, immergersi nell’orizzonte, staccare da tutto. Tornerò in Cina a fine luglio e voglio godermi questa lunga vacanza. Il mondiale è il mondiale, come fai a non vederlo. Soprattutto se sei un addetto ai lavori. Indipendentemente dall’Italia. E’ l’occasione per vedere come si evolve il gioco più bello del mondo, per scoprirne novità e passi indietro, stranezze e personaggi. Cerco di cogliere gli aspetti più curiosi e più stravaganti. Vedere il mondiale è come un master per gli studenti appena laureati. In sessant’anni di calcio ne ho visto di svolte, di sorprese e delusioni. Ma non si smette mai di imparare».

Nel programma del master in effetti di materie ce ne sono parecchie: la caduta degli dei, l’Africa che non decolla, l’Asia che rialza la testa. «Ma quale caduta degli dei, quello è un titolo buono per i giornali. Messi e Ronaldo hanno vinto talmente tanto in questi dieci anni, tra Champions e Pallone d’oro hanno riempito le loro bacheche all’inverosimile. Sono personaggi straordinari, che hanno fatto la storia del calcio. Semmai la lezione che arriva è che gli dei hanno bisogno di compagnia, una cosa è giocare nel Barcellona che ti gira intorno, altra nell’Argentina assemblata male; una cosa è avere il Real che ti esalta, un’altra fare i conti con gli onesti combattenti del Portogallo. Io però vedo le cose da un’altra angolazione, più che caduta degli dei, penso all’esplosione dei nuovi dei, mi emoziona quella meraviglia di Mbappè o il talento cristallino di Cavani. Qualche mondiale fa pensavamo che l’Africa sarebbe stata il futuro del calcio, pensavamo con quei talenti e quei fisici nessun traguardo era impossibile, oggi invece tutte le squadre africane sono a casa. C’è bisogno di studiare di più, serve più cultura calcistica, più apertura. Sei anni fa quando sono arrivato in Cina il livello era modesto, oggi è tutta un’altra cosa. Hanno fatto passi da gigante, si stanno avvicinando, con il Guangzhou abbiamo perso una semifinale di coppa intercontinentale con il Bayern Monaco, vorrà dire qualcosa?»

Mattinate in barca, tra bagni e pescate, con il vento che ti rimanda in faccia il fumo del sigaro. Pomeriggi e sere a guardare la televisione dove ripassano le immagini dei trionfi azzurri. E tra una partita e l’altra ti capita di beccare il rigore di Totti all’Australia, Gattuso che rischia di fratturarti le costole con la sua esultanza selvaggia, l’eleganza del gol di Del Piero e gli occhiali che volano, l’urlo di Grosso e le braccia alzate di Cannavaro. Difficile non emozionarsi. E quanto dolore provoca l’Italia assente?

«Anche in questo caso – continua Lippi – la vedo da un’altra angolazione. In novant’anni abbiamo vinto 4 mondiali, quasi cinque. Ci metterei la firma anche per il prossimo secolo. Certo se sei fuori rosichi, eccome se rosichi. Pensiamo al futuro, Mancini è un’ottima scelta, tecnico di personalità, capace e vincente, ha l’esperienza giusta per riannodare i fili, per riportare la nazionale ai livelli che merita e sogna. La chiave di tutto però è l’organizzazione, non è mai solo un problema di giocatori e di ct. Se si mette a posto la Federazione si ottiene il meglio. A me è andata bene. Come mi è andata bene alla Juventus: quando arrivai a Torino trovai una società impeccabile, una macchina perfetta, con una altissima qualità di persone in società. Se la Juve continua a vincere è perché quella macchina funziona a pieni giri, hanno fame di vittorie, non c’è mai appagamento. Le più piccole scivolate le trasformano in energia per andare ancora più forte. Ecco la nazionale deve puntare a creare un ambiente simile dove le nostre capacità e i nostri talenti possano esprimersi nel migliore dei modi».

Ma quanto manca a quest’Italia una figura come Gigi Riva, quanto l’hanno aiutata il suo equilibrio, il suo carisma, il suo rigore morale?

«Moltissimo. Io sono stato fortunato, enormemente fortunato a trovare una persona come lui. Un punto di riferimento così chiaro e fondamentale. Gigi è come voi tenace, a volte duro, ma sempre disponibile. Per la squadra era importantissima una figura del genere. Se qualcuno dei miei attaccanti aveva qualche problema, gli dicevo vai a farti due chiacchiere con Rombodituono, una soluzione puoi trovarla. La Sardegna per me è anche lui. Ovviamente per uno malato di mare come me, è anche molto altro. Ho trascorso vacanze bellissime, scoperto posti favolosi. E poi per me la Sardegna ha un valore affettivo enorme. La mia prima partita di serie A, con la Sampdoria allenata da Fulvio Bernardini, l’ho giocata al Sant’Elia di Cagliari. Era il 27 settembre del 1970, il Cagliari aveva appena vinto lo scudetto, avevo 22 anni, ero emozionato ma sicuro, vincevamo fino a dieci minuti dalla fine, poi il Cagliari segnò su rigore con Riva (per me se l’inventò l’arbitro) poi Brugnera fece il gol decisivo. Mi sarebbe piaciuto giocare in quella squadra, ma non arrivò nessuna offerta».

Lei ha cominciato con la Stella Rossa di Viareggio, ma è vero che sul pullman con cui andavate alle partite cantavate Bella Ciao?

«Certo. Era la squadra del quartiere. Mio padre era un gran socialista, vivevo in una zona in cui i valori della Resistenza e dell’antifascismo erano molto sentiti e ancora vivi in quel dopoguerra così complicato, cantavamo Bella Ciao e Soffia il vento, anche se di politica sapevamo ben poco. É vero, ha ragione lei, adesso in Cina ne vedo un sacco di bandiere rosse al vento. L’esperienza che sto vivendo in questo paese è fantastica, come le ho detto non si smette mai di imparare. Come vedo l’Italia da quella parte del mondo? Mi sembra che ci sia un po’ di confusione, che ci sia troppa sfiducia, troppo populismo. Ho la sensazione che si passi troppo tempo a criticare le cose che non vanno, invece che a darsi da fare per le cose che servono. Credo che ci sia bisogno di più ottimismo. In fondo anche in politica come nel calcio serve più organizzazione, serve crederci di più. Ve lo dice uno che ha visto l’impossibile diventare possibile, che ha visto il cielo di Berlino tingersi d’azzurro. Come il mio mare».

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