La Nuova Sardegna

“Novantadue”, stragi di mafia Lo spettacolo di Claudio Fava

di Monica De Murtas
“Novantadue”, stragi di mafia Lo spettacolo di Claudio Fava

In scena al Teatro Comunale di Sassari Falcone e Borsellino, un destino comune

14 aprile 2016
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SASSARI. La storia di due uomini legati da una profonda amicizia fondata su un'ideale comune di militanza civile. Questo il quadro narrativo dello spettacolo “Novantadue/Falcone e Borsellino, 20 anni dopo” di Claudio Fava il 14 aprile alle 21 al Comunale di Sassari nella messa in scena di BAM Teatro firmata da Marcello Cotugno. Il lavoro in tournée nell'isola per la stagione Cedac (repliche:15 aprile al Cine Teatro Montiggia di Palau, 16 al Teatro Tonio Dei di Lanusei e 17 al Teatro Comunale di San Gavino Monreale sempre alle 21) ricostruisce gli ultimi mesi di vita dei due magistrati simbolo della lotta contro la mafia. Sul palco: Filippo Dini, Giovanni Moschella, Pierluigi Corallo. «È importante non solo capire come Falcone e Borsellino morirono, ma anche perché morirono e come vissero» precisa Claudio Fava, giornalista, vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia, sceneggiatore e scrittore come suo padre Giuseppe fondatore de “I Siciliani” e assassinato nell'84 dal clan Santapaola. Per l'autore lo spettacolo in scena non vuole essere una delle tante celebrazioni alla memoria ma piuttosto l'omaggio al valore della vita di due uomini. «Oltre la dimensione dell'eroismo, oltre la mitologia in cui siamo ormai abituati a collocarli, ho voluto descrivere la normalità di due persone. Normalità che vuol dire non solo impegno e ideali ma rabbia, ansia, paura».

Nell'ultima notte all'Asinara dove si ritirarono per preparare l'atto d'accusa del primo maxi processo alla mafia, Falcone e Borsellino lontano da sguardi e minacce stanno per concludere il lavoro di una vita. Ma in quella notte emergono anche verità e paure dei due amici che condividono lo stesso desiderio di vita e l'identico presagio di morte. «Quel breve spazio di tempo diventa l'occasione in cui dirsi le cose a lungo taciute - prosegue Fava - confessarsi speranze e paure sapendo che fuori da quella prigione, da quell'isola, li aspetta una guerra che non hanno cercato ma che ormai li reclama».

Il titolo “1992” rimanda ad una data dal valore emblematico che cambia la storia d'Italia.

«Sì, perché ci si rende conto che in gioco c'è la sorte non solo di alcuni magistrati o di alcuni territori ma della stessa democrazia. Da quel momento in poi comincia anche una lunga stagione di opacità, di verità tradite o parziali o sospese di cui abbiamo avuto consapevolezza strada facendo, nel corso degli anni».

I termini Mafia e Camorra non evocano più ormai solo gli scenari storici e culturali del sud ma anche quelli del nord Italia. La criminalità organizzata è ovunque dove si è sbagliato?

«Le mafie sono organizzazioni criminali antiche che hanno un modello culturale molto moderno: mettere radici dove possono costruire guadagno, facendo leva sulla debolezza del sistema imprenditoriale e sulla connivenza di quello politico. Abbiamo sottovalutato la loro capacità di penetrare e di mimetizzarsi nel tessuto economico legale. La mafia rappresenta per alcune piccole grandi imprese del nord est e nord ovest uno sportello bancario. Costruisce condizioni di lavoro e questo crea nei confronti della mafia una sorta di empatia sociale. La corruzione è il terreno fertile, la chiave che apre le risorse alle mafie. Attraverso il meccanismo della corruzione la mafia si inserisce in maniera capillare nel sistema. Se il mafioso vuole "entrare" in un Comune non entra con la baionetta spianata ma trovando l'interlocutore giusto».

Eppure in questi giorni in tema di riforme si discute ancora sul tema delle intercettazioni valido sostegno alla lotta contro la corruzione. Servono nuove leggi per combattere la mafia?

«Servono soprattutto nuove politiche europee dato che ormai da anni le organizzazioni criminali operano a livello transnazionale e senza leggi comuni a tutti i Paesi non è possibile perseguirle a dovere. La ”Risoluzione sulla criminalità organizzata nell'Unione Europea” già messa nero su bianco dallo stesso Parlamento Europeo il 25 ottobre del 2011 fissa tre linee principali: la creazione della figura di un procuratore europeo antimafia, l'estensione del reato di associazione criminale di stampo mafioso a tutti i Paesi comunitari, l'implementazione in tutti i paesi del reciproco riconoscimento dei provvedimenti di sequestro e confisca dei beni. Purtroppo ad oggi non è stata però applicata».

In questo clima generale può addirittura sembrare normale che il figlio di Totò Riina presenti un suo libro in televisione?

«Il problema non è intervistare il figlio di Riina Il problema è come lo intervisti. Le domande che gli fai. Le risposte che pretendi di ottenere. Se sei un giornalista non puoi permettergli di costruire il siparietto familiare su quanto era bravo e premuroso il padre. Non sei un giornalista se l'unico interesse è l'audience. Ma se per un punto di share in più conviene parlare del Natale in casa Riina piuttosto che dell'estate di Capaci, Vespa lo fa. Lei cosa avrebbe chiesto al figlio di Riina? Se era li per parlare per conto della Mafia, perchè lui è un mafioso processato per mafia o se rinnegava il suo passato. Gli avrei chiesto di parlare degli omicidi collezionati dal padre, dei soldi accumulati, del potere esercitato, di Cosa Nostra. E se Riina junior si rifiutava di parlare: era quella l'intervista».

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