La Nuova Sardegna

«Più intimo e sentimentale ma il mio jazz ha tante facce»

di Walter Porcedda
«Più intimo e sentimentale ma il mio jazz ha tante facce»

Oggi all’Auditorium di Cagliari Paolo Fresu presenta il disco Mare Nostrum II Un progetto che unisce chanson francese, canzone italiana e folk nordico

24 aprile 2016
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di Walter Porcedda

CAGLIARI

Paolo Fresu e Mare Nostrum, capitolo secondo. Continua il viaggio musicale del trombettista in compagnia del pianista svedese Jan Lundgren e l'accordeonista francese Richard Galliano che per l'etichetta Act ha appena pubblicato l'album che presenterà domani nel concerto che si terrà alle 21 all'Auditorium del Conservatorio per conto di Sem, Spettacoli e musica. Il disco è un incontro tra tre diverse personalità e come filo conduttore ha l'amore per la melodia. Varie le sorgenti di ispirazione di “Mare Nostrum II”: la chanson francese e quella italiana come il folk nordico. Componenti di un disco romantico che strizza l'occhio ai sentimenti mostrando le diverse passioni dei musicisti. Da quella per Monteverdi di Fresu all'altra per Satie di Galliano.

«Il primo disco di Mare Nostrum è del 2002 _ dice Paolo Fresu _ E' nato un po' a tavolino. Io conoscevo Richard e lui Lundgren. E' stato un produttore svizzero, Renè Hess, a metterci assieme. La cifra musicale è quella dell'incontro. Un progetto semplice che propone un ascolto molto cool».

. In linea con molta sua musica degli ultimi tempi. Segnata da una vena intima e quasi nostalgica. Considera chiusa l'esperienza di una fase più sperimentale, come ad esempio quella del Devil quartet?

«No tutt'altro. Nella mia testa, certamente, l'elemento intimo ha molto a che fare con la melodia. Così accade che in un progetto come questo basato sull'essenzialità melodica possa venir fuori la nostalgia. Ma non è voluto. La mia idea era di trovare un suono essenziale, togliendo gli orpelli e lasciare solo il racconto dell'incontro. Ovvio che quando suono con formazioni come il Devil, o come capita nel disco in uscita con il pianista Omar Sosa, ci siano invece episodi meticciati, con ricerca ed effetti elettronici. L'idea del suono però non cambia ma si modifica come peso specifico a seconda dei progetti».

A proposito di dischi. In pochi mesi sono usciti già tre album (quello di Natale, "The Whistblowers" con David Link e "Mare Nostrum") e un altro è in uscita a giorni.

«Si, uscirà “Eros” dove compare anche Natasha Atlas: è una sorta di concept album. Conterrà anche “Teardrop” dei Massive Attack, e un inedito di Peter Gabriel».

Etichette come Ecm, Act e Tuk vogliono dire anche suoni differenti, come riesce a passare da una all'altra?

«In realtà quelle di riferimento sono solo due. Ecm e Tuk. L'Act è un capitolo a parte. Tuk è la mia etichetta. Abbiamo un catalogo di 28 dischi e stiamo per partire con un giro promozionale nei negozi piccoli e coraggiosi. Per quanto mi riguarda non ho pensato a un suono preciso: lascio i musicisti di concepire gli album in libertà. Dischi e i musicisti come in una sorta di famiglia. L'unico elemento che accomuna le produzioni è l'elemento grafico».

Diversi anni fa fece scalpore un suo concerto all'Auditorium di Roma in cui passava da una formazione all'altra, usando tutte le sale in contemporanea. Come riesce a saltare da una situazione musicale all'altra?

«L'evento più rappresentativo in questo senso credo sia stato il tour in Sardegna per i miei cinquanta anni! Erano infatti altrettanti progetti tutti diversi tra loro. Devo dire che se giro per una settimana con la stessa formazione rischio di annoiarmi. Sto un po' esagerando per dire che amo cambiare. Adesso farò un tour di quindici giorni con Ralph Rowner, ma è una cosa rarissima. Mi piace davvero l'idea di cambiare. Mi sento più vivo. Certo, mi rendo conto che dall'esterno possa apparire difficile, ma per me è proprio così».

Una volta mi disse che compone le sue musiche nelle sale d'attesa di aeroporti o in viaggio. E' ancora così?

«Spesso devi fare di necessità virtù. A casa in realtà produco poco, molto di più in viaggio. In questo modo ho un mio tempo che mi permette maggiore concentrazione».

Tante le iniziative a suo nome, dal concerto dell'Aquila a Time in Jazz che dirige da trenta anni. Mai pensato di passare la mano affidando la direzione ad altri, come ha fatto per i Seminari di Nuoro?

«Lo penso spesso. Così è accaduto infatti a Nuoro. In questo Paese bisognerebbe avere il coraggio di lasciare la sedia. Dopo 25 anni ho deciso di andare via. La stessa riflessione la faccio anche per Time in Jazz, con una differenza. I Seminari possono di sicuro vivere senza il sottoscritto. Io ho solo individuato la figura di Roberto Cipelli, un caro amico, a cui passare il testimone. A Berchidda è più complicato. Il festival è completamente identificato con la mia figura. Vorrei prima o poi lasciare il testimone nella mani di chi in quel festival vi è cresciuto. L'anno venturo, se ci riesco, vorrei affidare ogni giornata a un diverso musicista».

E tra pochi giorni tornerà in Sardegna per celebrare con "Island jazz" la giornata Unesco del Jazz con appuntamenti da Olbia a Nuoro e suo concerto finale a Barumini.

«A gennaio sono stato nominato ambasciatore dei giovani dell'Unesco. Ho pensato che la giornata del jazz andasse celebrata con una iniziativa nazionale. In Sardegna si passerà da Palau a Sassari sino a Barumini, sito dell'Unesco».

La Sardegna è un caso unico in Italia per la sua diffusione capillare del jazz. Perchè non ha pensato di coinvolgere anche gli altri festival e gli operatori sardi in questa iniziativa?

«L'idea di fare una giornata concertata in tutta Italia è nata in ritardo. Si è fatto quel che si è potuto. Se si proseguirà in futuro, e spero di si, bisognerà certo coinvolgere e fare una concertazione di quello che accade in Sardegna e le cose sarebbero certo molte. Questo anno non c'è stato il modo, lo faremo in futuro».

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