La Nuova Sardegna

«I saperi antichi per la rinascita dei piccoli paesi»

di Giacomo Mameli
«I saperi antichi per la rinascita dei piccoli paesi»

Intervista con l’antropologo Pietro Clemente «Il modello Armungia valido per tutta l’isola»

12 giugno 2016
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ARMUNGIA. Il titolo, molto popolare, recita: “Andiamo a prendere un caffè ad Armungia”. Potremmo adattarlo a Florinas e Pozzomaggiore, a Seneghe e Villanova Monteleone, a Bitti e Neoneli, ai paesi che si spopolano. «È stato un mio amico giornalista di Cagliari, Gianni Perrotti, a propormela e l’ho trovata efficace e pertinente. Anche un piccolo gesto può far capire il senso di quella che considero una emergenza nazionale e mondiale», dice Pietro Clemente, nuorese di nascita, antropologo fra i massimi in Europa, legatissimo al Cavaliere dei Rossomori.

Fra trent’anni la Sardegna avrà 350 mila abitanti in meno.

«Occorre viaggiare controcorrente per rianimare Armungia, connettere in una rete di generazioni e imprese i paesi della Sardegna interna, che le previsioni del 2020 danno pressoché esausti a favore della ciambella costiera e turistica. Viaggiare controcorrente guidati dalla cultura, dall’artigianato, dai saperi, dai cibi, dalla produzione locale, dalle generazioni Erasmus. Una scommessa piena di futuro difficile. Armungia ha due musei, quello dedicato a Joyce ed Emilio e alla loro storia, e quello dedicato alla vita del paese e al mondo produttivo con l’edificio del fabbro. Con la nuova strada che la connette alla costa, Armungia non è più finisterrae. Ci si può venire tornando dal mare, ci si trova da dormire, si mangia in modo organizzato ed eccellente nella rete del B&B. Ridare vita alla vita demografica è scommessa che Tommaso Lussu sta praticando, in nome del nonno. Questo è impegno civile».

Il suo collega Marc Augè dice che lo spopolamento dei paesi è «fatto irreversibilein tutto il mondo». Cita la Cina, dove le piccole città diventano megalopoli mentre le campagne si desertificano. Gennargentu docet.

«È vero che anche nelle metropoli nascono paesi, comunità, forse economie rurali. Ma in Italia spesso sono i paesi dell’interno che danno senso e identità alle regioni e molti hanno avviato processi di riaggregazione. In Sardegna anche le coste turistiche prendono valore dalle culture dei paesi, occorre sostenerli contro il declino. Con politiche regionali per trasformare la resistenza in nuovo sviluppo con risorse locali».

Che fare in concreto negli altri 285 paesi sardi destinati a scomparire?

«Copiare Armungia. Organizzare iniziative non previste dai trend demografici. Paesi virtuosi ce ne sono, con iniziative che animano villaggi in agonia, penso ai festival letterari. Ma non basta. Sogno un ritorno dell’artigianato, del saper fare manuale che è calamita attrattiva e darebbe reddito. E non possono essere le sole donne eroiche del tessile a Ulassai come a Mogoro. Creerei una rete tra questi paesi, che si scambino le esperienze. Mi farebbe piacere che Monticchiello (Siena), frazione di Pienza con 300 abitanti che lotta con i mezzi del teatro e del museo per rivivere, incontrasse Casa Lussu e Armungia. Sarebbero due pezzi di storie esemplari».

Molti paesi sardi sono troppo divisi per campanili.

«Sono un antropologo che si è dedicato ai piccoli paesi. Spero di restare nella loro toponomastica, mentre condivido le sfide per costruire un futuro controcorrente. Lussu è restato nei nomi delle strade, ma nella toponomastica diffusa ha avuto un solo racconto: “Una volta mentre eravamo a caccia uscì in questo passo nel bosco un cervo bellissimo, i cacciatori imbracciarono velocissimi i fucili, pronti a sparare, ma Lussu, che guidava la battuta, li fermò con un gesto: "È un animale bello e fiero, lo dobbiamo rispettare", disse. Quel passo ora si chiama Su passu de Lussu. Per valorizzare i nostri paesi li dobbiamo conoscere».

Lei ha creato la scuola antropologica di Armungia. Come nasce?

«Nel 1997 Giovanni Lussu, figlio di Emilio, mi suggerì l’idea di dare centralità ai luoghi periferici. Andai ad Armungia con i miei studenti romani per una esercitazione sul campo, vedere se potesse nascere qualche scintilla. Lo stage durò tre anni, per circa 15 giorni all’anno, coinvolse 66 giovani e diversi docenti delle università di Roma e Cagliari. Esperienza difficile e intensa. Quei ragazzi ora sono trentenni o quarantenni. Hanno scritto libri di antropologia, lavorano in ong e organismi internazionali, molti sono precari nel modo di vivere e antropologi nel modo di pensare e scrivere. Un primo ritorno ci fu nel 2007 per presentare la rivista Lares con scritti legati agli stages. In quel numero ho scritto un testo che si intitola “Il paese di Emilio Lussu e delle rose”, un testo “emozionato”. Emozioni che restano».

Nuove politiche: mica è facile viaggiare controcorrente.

«Ad Armungia e in pochi altri paesi varie amministrazioni hanno investito sul “patrimonio”. Si direbbe che ad Armungia è in atto un processo di patrimonializzazione. Ci sono state tante discussioni sull’Unesco e sul patrimonio, qualcuno pensa che il vero patrimonio è quello di cui non si parla, ma sbaglia. Nel nostro mondo la parola, la autorappresentazione, la narrazione e la metanarrazione sono le forme principali del riconoscimento. Siamo nel mondo globale anche nei piccoli paesi, anche dove ci sono più televisori che abitanti. Le istituzioni “patrimonializzano” e tutti i fiori appassiscono, il bello diventa brutto. Noi vogliamo paesi abbelliti da fiori freschi. Con politiche diverse da quelle metropolitane».

Qualcuno, alla Regione o Montecitorio, si potrà sintonizzare col metodo-Armungia?

«Armungia è casa di memorie. Lo sono tutti i paesi. San Sperate ricorda Pinuccio Sciola, Ulassai Maria Lai, Orani Mario Delitala, per non parlare di Ales e Ghilarza. Ricordare Lussu è uno heritage della memoria e della coscienza. Tessere alla maniera di Zia Giovanna è molto di più. Trasmettere quel sapere, ricco di modalità apprese nel tempo, è letteralmente quel che nella Convenzione Unesco 2003 si intende per “salvaguardia”. Tommaso e Barbara con Giovanna hanno attivato una trasmissione di know how che è costruire futuro, per gli artigiani, per le differenze culturali, per i saperi della natura, per “cose” dotate di uno stile. Le competenze attivate si ri-aprono a loro volta alle varianti, alle creazioni, a nuovi mercati. Il “patrimonio culturale immateriale” sta vivendo un tempo fecondo. Lo può essere in tutti i paesi. Che hanno diritto a resistere ed esistere».

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