La Nuova Sardegna

“Addio”, il romanzo della fine del lavoro

di GIACOMO MAMELI
“Addio”, il romanzo della fine del lavoro

Il reportage di Angelo Ferracuti nel Sulcis della grande crisi

01 agosto 2016
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di GIACOMO MAMELI

Scrive per «una forma di ribellione nei confronti del pensiero dominante che artatamente racconta un’altra storia, eludendo qualsiasi conflitto, che storicamente è uno solo: quello tra capitale e lavoro». Da una spiaggia dell’Adriatico dove si trova in vacanza prima di sbarcare in Sardegna, Angelo Ferracuti parla del suo libro Addio (Chiarelettere, pa 241 pagine , 16.60 euro) con un soprattitolo alla Jeremy Rifkin perché recita “Il romanzo della fine del lavoro”. Ma, contrariamente all’economista di Denver, Ferracuti (che ha scritto tra l’altro “Le risorse umane”, “Il costo della vita”, “Andare, camminare, lavorare”) concretizza le pagine con la pratica del segugio e del battitore, che va casa per casa, città per città, deserto industriale per deserto industriale a documentare la catastrofe in atto della disoccupazione crescente e di un Paese, l'Italia, che ormai ha appeso al chiodo qualunque forma di produzione e galleggia nel nulla. Racconta di essersi ispirato ai grandi classici, da George Orwuell a Émile Zola, ma anche ai «mangiatori di patate» di Van Gogh, alla zona di Borinage, in Belgio un tempo fondata sulle miniere di carbone.

Voci operaie. Sembra evidente fare un’equazione col Sulcis, con la morte lenta di Carbonia e di Iglesias dove «era sorta l’epopea della classe operaia» e che oggi sprofonda, «seppure con tanta dignità», in un abisso di cui non si scorge il punto basso inferiore. Cita i libri di Elio Vittorini, gli studi dell’antropologa Paola Atzeni, i romanzi e le poesie del professore Manlio Massole diventato minatore nelle gallerie di Buggerru. Perché le vecchie capitali del lavoro salariato non hanno futuro. Parla di Marco Grecu e Mario Zara, del metaracconto di Carlo Martinelli, del chitarrista degli Intreccio Roberto Pala. «Sono stato colpito da Carbonia in particolare, per il suo territorio, per i paesaggi senza vita, per il tipo di legami sociali che si erano costruiti nell’ultimo secolo. E oggi tutto è evaporato. Mi ha colpito la testimonianza di Claudio Melis, ultimo operaio di Ingurtosu». Sembra di leggere la fine della storia, il crollo di un sogno perché il lavoro che comunque c’era – duro quanto si vuole – non lascia il posto al lavoro che verrà. Sembra di dover vivere in una nebulosa fatta dal pulviscolo del nulla, dal vuoto politico-programmatico totale.

Crisi nera. Marchigiano di Fermo, 56 anni, postino di professione, ha nelle vene e nelle dita l’impronta delle lezioni urbinati di Paolo Volponi e del suo «Le mosche del capitale». Perché, raccontando «La terra del carbone» e ancora «Musi neri» e «Crisi nera» mette a nudo una realtà che la classe dirigente sarda non ha saputo affrontare. La fine delle miniere da una parte, il lucchetto agli stabilimenti dell’alluminio dall’altra. Dà la parola a Sandro Mereu di Bacu Abis: «Una volta c’erano 15 mila minatori, al tempo del fascio, adesso di abitanti ne fa solo duemila e l’ottanta per cento sono in pensione ed ex minatori o vedove di minatori. Quelli che lavoravano in miniera stanno tutti lasciando questa vita, ne sono rimasti pochissimi. Tutti gli altri sono disoccupati o in mobilità e i giovani stanno andando via come mia figlia che per cercare fortuna si è spostata a Milano».

Dentro i pozzi. Ferracuti aveva incontrato Mereu a Nuraxi Figus: «Scesi con lui sottoterra, avevano allestito una sala con tavoli di fortuna e cavalletti e convocato una conferenza stampa a livello -373, davanti al deposito erano custoditi 600 chili di tritolo e i detonatori». Parla di Massole, un uomo speciale, che ha raccontato «il corpo martoriato e sacrificato del minatore». E ne riporta una frase che tutto dice dello sfruttamento bestiale incessantemente attuato sugli operai: «In miniera si dice sono morti in tanti. Non è vero. In miniera sono stati uccisi i molti, i molti, i molti sono stati uccisi in miniera. Nessuno è andato a finire dentro, probabilmente giustamente. Il responsabile era la società, eravamo tutti noi». Così Ferracuti descrive Massole: «La sua testimonianza politica diventa storia dei vinti. Ancora la testa calva, le rughe espressive, ripete che tutti non siano riusciti a cambiare la società». E per non dimenticare – e citando un documentario di Daniele Atzeni del 2002 – ripete: «In miniera non sono morti i minatori, la società, tutti noi li abbiamo uccisi».

L’età dell’alluminio. Chiuse le miniere ecco i giorni dell’alluminio. Che, certo, era necessario per sostituire il lavoro distrutto e crearne del nuovo. Ma è diventata una storia di inquinamento, di industrie (anche a partecipazione statale) gestite malissimo, dirette peggio, manager incapaci, ciminiere fumanti di polveri dannose alla salute. Un po’ di cronaca per dire che nulla cambia. Scrive Ferracuti: «Vengo a sapere che l’Alcoa sposta le produzioni in Arabia Saudita, Norvegia e Islanda. Il progetto Kàrahnjùkar prevedeva la distruzione di tremila chilometri quadrati di paesaggio incontaminato. L’area selvaggia più grande d’Europa venne inondata da tre laghi artificiali e dalle scorie di una imponente fabbrica di alluminio con la regia dell’italiana Impregilo, che impiegava manodopera cinese, polacca e portoghese con paghe basse e condizioni di lavoro ai limiti del lecito».

Storie devastanti di un Paese e di una Sardegna che non sanno rispondere al quo vadis. La nebulosa-Italia di oggi può solo evocare il lavoro che c’era una volta.

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