La Nuova Sardegna

Sul palco un trascinante Mats Gustafsson

Sul palco un trascinante Mats Gustafsson

Il sax del musicista svedese in trio con il piano di Sten Sandell e la batteria di Raymond Strid

12 settembre 2016
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SANT'ANNA ARRESI. L'improvvisazione che sfonda verso il noise, vira in direzione di un rock che suona nordico e la sezione fiati, a più riprese interviene per ricondurre tutta l'orchestra sulla retta via. Una esuberante Nu Ensemble di Mats Gustafsson, per la penultima serata, venerdì scorso, di “Ai confini tra Sardegna e jazz” ha dato vita ad un set scintillante. Tredici elementi che hanno dato il meglio, sotto lo sguardo vigile del maestro Bas Wiegers, generoso nei momenti in cui lascia cavalcare liberi i vari componenti per un breve solo, un momento di improvvisazione che regala emozioni e mette in bella mostra le capacità di chi la esegue, senza le briglia che li tenga a bada. Parte dal trio fondamentale composto da Mats Gustafsson (fiati), Sten Sandell (pianoforte), Raymond Strid (batteria) e che di volta in volta aggiunge e sostituisce nuovi e vecchi elementi e che vanta, in occasione del concerto di venerdì sera in Piazza del Nuraghe, la presenza di Ken Vandermark al sassofono e di Hedvig Mollestad alla chitarra.

Una produzione originale creata ad hoc per la trentunedima edizione del festival diretto da Basilio Sulis, e che arricchirà di un capitolo la collana di album “Hidros” di Mats Gustafsson & Nu Ensemble . Numero sette in questo caso con sottotitolo “Zap” (il precedente “Knockin' ” è datato 2014). Zappa interviene nelle parole. Quelle recitate dal poeta sonoro Jaap Blonk. Già poeta sonoro, descrive al meglio l'interpretazione dei testi, scritti in parte da Gustafsson, e le restanti dedicati a Frank Zappa.

Dichiarazioni, parti di liriche prese dalle sue composizioni, mixate e ricostruite senza un ordine apparente come un percorso districato in cui l'ascoltatore deve trovare, riconoscere e ricomporre per poter capire il riferimento o la citazione. Un concerto impegnativo, dal punto di vista del pubblico, in grado di mantenere alta l'attenzione e tiene col fiato sospeso come in un vortice tra la teatralità delle parti cantate e recitate ed il coinvolgimento emotivo della musica. La melodia accompagna tenendo salda la mano per poi abbandonarla sul precipizio del free jazz che arriva improvviso e risveglia dal torpore dei momenti di facile ascolto. Un fulmine a ciel sereno, arrivato subito dopo la dolcezza del Piano Solo di Cooper Moore.

«Il jazz è solo una parola – recita in apertura di performance – Il jazz non ha una madre, ne ha avute tante: il blues, il bebop, lo swing». Laddove le parole non possono accompagnare le note del piano, ecco che arrivano in brevi intermezzi in cui il compositore e storyteller originario di Piedmont in Virginia, cresciuto musicalmente da autodidatta fra i tasti degli organi delle chiese. Suona e canta, note e parole, d'amore, di felicità, di rispetto per la sacralità della terra, di giustizia, in modo semplice quasi come un mantra e coinvolge il pubblico che ha gremito l'anfiteatro ai piedi delNuraghe (an.mus.).

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