La Nuova Sardegna

Un viaggio nei luoghi dell’isola che svanisce

di COSTANTINO COSSU
Un viaggio nei luoghi dell’isola che svanisce

Da oggi a Cagliari la mostra di Gianluca Vassallo “La città invisibile”

06 ottobre 2016
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di COSTANTINO COSSU

Entro 60 anni, in Sardegna, scompariranno 31 comuni con meno di 1000 abitanti. Lo rivela uno studio del 2013 commissionato dalla Regione. I dati raccolti sono la premessa di Spop, il progetto di Sardarch, collettivo di architetti che da tempo persegue un’approfondita analisi del fenomeno, assimilabile a una forma di emigrazione che non prevede ritorno. I numeri sono anche lo spunto per il viaggio del fotografo Gianluca Vassallo, che ad agosto ha fatto tappa in dieci comuni tra quelli identificati in via di estinzione: Bortigiadas, Nughedu San Nicolò, Semestene, Giave, Padria, Monteleone Rocca Doria, Esterzili, Ussassai, Armungia, Aidomaggiore. I materiali video e fotografici raccolti rappresentano il nucleo della mostra “La città invisibile”, a cura di Roberto Cremascoli, che sarà presentata oggi, alle 18, negli spazi espositivi della Fondazione di Sardegna a Cagliari, in via San Salvatore da Horta 2. In questa intervista alla Nuova Gianluca Vassallo parla del suo lavoro.

Che cosa è Spop?

«È un progetto di ricerca nato nel corso di quest’anno, ideato dal collettivo Sardarch e abbracciato dalla Fondazione di Sardegna con l’obiettivo di riportare al centro del dibattito pubblico il fenomeno dello spopolamento. La forza progettuale di Spop è l’introduzione di un “sistema di lettura” del tutto nuovo dei dati sulla “desertificazione demografica” raccolti dalla Regione nel 2013: consegnandoli a sensibilità culturali estremamente differenti restituisce all’opinione pubblica una traduzione eterogenea del medesimo corpo statistico. Il mio contributo, la mia traduzione, è “La città invisibile”, un’operazione d’arte resa possibile dalla Fondazione Sardegna che, nell’ambito della piattaforma AR/S - Arte Condivisa in Sardegna, mi aveva interpellato per la creazione di un progetto negli stessi giorni in cui definivo con Sardarch che contributo dare al progetto Spop. Mi è sembrato naturale provare a far incontrare le due progettualità, ed è stato stupefacente l’entusiasmo con cui la Fondazione di Sardegna ha aderito, sostenuto e reso concrete tutte le pratiche che compongono “La città invisibile”, e contestualmente deciso di sostenere una pubblicazione in cui confluiranno la ricerca scientifica e tutti i contributi raccolti da Sardarch».

I comuni coinvolti nel progetto sono dieci. Come ha lavorato?

«Volevo un tempo stretto, una sequenza serrata, storie collettive differenti, caratteri sociali contrapposti, tutto concentrato. E volevo che fosse caldo, faticoso. Volevo lavorare portando il corpo a sentire la distanza dalle mie aree di conforto, in una condizione psicologica, fisica ed emotiva che mi facesse “stare” nei luoghi, con i ricettori aperti e i nervi a fior di pelle assieme. Volevo vivere le comunità come mie, sentirmi in gabbia perché lontano da tutto e in pace per la stessa ragione. Ho scelto così di fare un viaggio solo, di dieci giorni, tra il 17 e il 27 agosto, un letto nuovo ogni notte, un pezzo di strada al giorno, in mezzo al nulla.

Avevo bisogno di scegliere i comuni da attraversare tendendo insieme la statistica e la sensibilità e infine ho utilizzato l’unico tra quei parametri che avesse un aspetto poetico: la superficie quadrata pro-capite, che per me era “la circonferenza della solitudine”. Il punto è che l’insieme di queste pratiche, dei sistemi di scelta, che dall’esterno – comprensibilmente – possono essere giudicati una sovrastruttura, sono ciò che umanizzano lo sguardo, lo rendono univoco, mio. Sono ciò che mi permette di istruirmi attraverso la produzione di senso, anziché cercare di istruire chi osserva attraverso una produzione giudicante. Queste pratiche sono il mio sguardo».

Chi e che cosa ha visto?

«E’ stata un’esperienza complessa perché, mentre attraversavo la mia Sardegna, ho visto più necrologi che fiocchi alle porte, troppe case vuote, valigie sugli usci. E quando bussavo alle porte, in ogni paese, le vecchie erano sempre sole in casa, e avevano i mariti incorniciati in corridoio o seduti in piazza e quasi tutte il televisore acceso a parlare del terremoto. E mi è sembrato che non avessero altro che la speranza di tenere in vita la loro memoria, il modo in cui sono state giovani, mentre dicevano che il paese doveva sopravvivergli. Che un tempo era meglio, che un tempo i ragazzi sudavano, un tempo c’era tutto. Un tempo che era il loro. Appunto. Ho attraversato un’isola intera, per realizzare di non aver visitato dieci comuni decimati, ma una sola, interminabile, città invisibile. Invisibile come il mondo, se osservato da lì».

E poi le foto diventavano gigantografie da incollare sui muri dei paesi...

«Per quanto io lavorassi dalle 9 del mattino fino alle 19, le fotografie da mostrare ingrandite venivano scelte e inviate allo stampatore entro le 13, in modo che le gigantografie potessero essere affisse in giornata, entro il tramonto. I luoghi di affissione venivano decisi sul momento. Il Comune chiedeva al volo l’autorizzazione ai proprietari delle case. Ma a determinare chi andasse affisso e dove, spesso era lo storia del soggetto in sè: penso a Monteleone Rocca Doria dove la faccia di un ex lavoratore della cava di tufo è stata affissa sulle pareti della “sua” cava, o ad Ussassai, dove una donna anziana, fotografata mentre guardava il cielo, è stata affissa sul belvedere che guarda la valle».

Dal lavoro sul campo alla mostra. Perché avete scelto con Roberto Cremascoli il titolo calviniano “La città invisibile»?

«Al termine del suo “Le città invisibili” Italo Calvino scrive: “L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. Ebbene in queste parole non c’è solo un metodo, che somiglia profondamente al mio, su come leggere (e nel mio caso attraversare) quei luoghi, ma anche una visione delle città (l’inferno, se ce n’è uno) come universi partecipati fatti della somma delle nostre intenzioni, dei significati che gli portiamo, della forza critica e, quindi, di responsabilità individuale prima che collettiva verso il perimetro della nostra convivenza. Una città, si spopola, scompare, diventa invisibile quando abdichiamo al nostro ruolo di costruttori di senso per la comunità».

Oltre gli interventi nei paesi e la mostra, i materiali confluiranno in una pubblicazione. Come sarà?

«Sarà una pubblicazione che si solleva dal giudizio di merito, per cercare di osservare il fenomeno dall’alto, attraverso molte chiavi di lettura: urbanistica, sociale, architettonica, civile e culturale. Un approccio che, a mio avviso, suggerisce un metodo di lettura di ogni fenomeno, che fa della complessità uno strumento di consapevolezza, evitando la tentazione tutta umana di portare al mondo l’ennesima verità univoca».

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