La Nuova Sardegna

Storie oltre le sbarre: le canzoni liberate da Piero Marras

di Paolo Curreli
Storie oltre le sbarre: le canzoni liberate da Piero Marras

Una ricerca restituisce una mole di documenti dimenticati. La corrispondenza censurata ritrova la libertà con la musica

08 ottobre 2016
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SASSARI. È stata un’operazione di ricerca, uno scavo nei sotterranei delle carceri e delle colonie penali sarde. Ma anche l’esplorazione nelle anime degli uomini che dietro quelle sbarre hanno lavorato, sofferto e forse anche raschiato qualche attimo di serenità. Un viaggio di 380 pagine in grande formato, centinaia di foto storiche “Le carte liberate” edito da Carlo Delfino è davvero un volume e una ricerca importante, gli autori Vittorio Gazale e Stefano A. Tedde hanno riportato alla luce, con l’aiuto dei carcerati di oggi, centinaia di carte che raccontano non solo gli aspetti amministrativi e il mutamento dell’istituzione carceraria, ma anche dolorose vicende umane. Di queste storie, e della loro liberazione attraverso le ali della musica e della poesia, si è occupato Piero Marras. Un artista che è un collettore sensibile di storie e sentimenti; ha cantato l’amore e ha raccontato il dolore e le vite dei sardi in brani che sono dei classici, non solo locali, della storia della canzone d’autore. «La maggior parte di queste lettere purtroppo non sono mai arrivate a destinazione, bloccate da una rozza ed arrogante censura. Come dire, anche i sentimenti sono stati messi dietro le sbarre», racconta Piero Marras.

Com’è stato lavorare con queste testimonianze?

«E’stato come prendere contatto con una umanità di confine, dimenticata da tutti. I “reietti del reame” come ha lasciato scritto uno dei reclusi. I silenziosi protagonisti di un passato che all’improvviso irrompe. Ho voluto visitare di persona i luoghi dei reclusi e lì, con i loro scritti ancora nella mente, mi è sembrato di riuscire a cogliere i segni di giornate monotone e interminabili, trascorse in cellette anguste e disumane, insieme ai loro desideri, alle loro speranze non sempre ben riposte. E soprattutto mi è sembrato di riuscire a cogliere nell’aria, come palpabili e ineludibili presenze, i loro pensieri».

E dal coinvolgimento è arrivata la canzone?

«Sì, è nata l’esigenza inderogabile, urgente, di elaborare questi scritti nascosti. Di cantarli. E in questo modo rendere loro giustizia. Liberarli dall’oblio, farli conoscere. Così sono nate le mie “Storie liberate”. Per restituire a questi pensieri la libertà di volare sopra il mondo ed essere finalmente ascoltati e condivisi».

Un esempio delle storie che ha scelto?

«Ho raccontato in “Se io potessi scrivere” le intense lettere di Nello, matricola 907, caporal maggiore della brigata Nembo, condannato dal Tribunale militare straordinario di guerra a 15 anni di reclusione, interdizione dai pubblici uffici e degradazione del ruolo militare per aver rubato una pecora per fame! La disarmante autodifesa di Marcello, matricola n. 555, in “Non ero io, lo giuro”, condannato per tentato femminicidio. Il particolare e intenso rapporto affettivo del detenuto di Mamone Francesco col suo presunto cugino (anch’egli detenuto) in “Mio caro cugino Giuseppe”».

Vite, voci e culture molto diverse, che lavoro ha fatto sui testi?

«In ogni canzone ho voluto adottare una sorta di rigore filologico. Le parole usate nei miei testi rispettano in maniera quasi pedissequa quelle usate dai detenuti negli scritti rinvenuti. Niente di romanzato o elaborato».

Cosa ha scoperto di questo “universo”?

«L’opportunità di approfondire la conoscenza del mondo carcerario e lo stimolo su una riflessione sulle attuali condizioni delle carceri in Italia. “Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni” ha scritto Dostoevskij. Concetto che riprendo in “Un numero” dove esprimo la mia idea di carcere, in ossequio alla sua principale funzione di luogo di recupero della persona e non esclusivo luogo di pena. Mi ha dato anche l’occasione di esprimere una serie di “riflessioni cantate” sulla recente introduzione dell’aberrante ergastolo ostativo, la cosiddetta “pena senza speranza”».

In carcere non solo detenuti?

«Sì, “Fare l’agente di custodia” è dedicata al duro e ingrato lavoro quotidiano degli agenti di polizia penitenziaria.Categoria che negli anni ha pagato un pesante tributo di vite umane, troppo spesso ignorata dai media e non solo».

Sardegna oltre le sbarre?

«Ho scritto alcuni brani in lingua sarda come “Castiadas”, sulla storia della piu antica colonia penale sorta in Sardegna e “Caru Ferrandu”, tratto da un ottava del famoso poeta-bandito di Fonni Bachisio Falconi che “soggiornò” per diversi anni a Tramariglio, da dove poi riuscì ad evadere. E poi “Ziu Paulinu ‘e sas crapas” ambientata all’Asinara, sulla curiosa vicenda di un anziano detenuto e delle sue capre che lo riconoscono da lontano e gli corrono incontro festose. A volte “menzus sas crapas sun de sas pessones (a volte sono meglio le capre degli uomini)».

Coinvolto come uomo, insomma, oltre che come cantante?

«Certo, non lo nascondo. Tanto che mi sono arrogato il diritto, nelle performances live, in pieno transfert di immedesimazione, di cantare ipotetiche risposte a quelle lettere inviate ai reclusi e purtroppo dai medesimi mai ricevute. È il caso della corrispondenza d’amore di una giovane coppia, lui detenuto di origine umbra, Nello, e lei, Eleonora, una ragazza di Piscinas. Si tratta di una trentina di lettere intime e profonde, scritte con una grafia incerta, che non vennero mai consegnate al detenuto.Dentro una di queste c’era una foglia appassita di basilico e queste poche righe “ti invio questa foglia del basilico piantato da noi, odorala anche tu come ho fatto io! Ti bacio forte”. Dopo oltre 70 anni i versi della mia “Unu frore che a tie” sembrano scritti apposta per una ipotetica risposta di Nello alla dolcezza delle lettere di Eleonora. Fra le tante, un’altra vicenda mi ha colpito. Una morte bianca. Quella del detenuto Fausto Melis che nel pomeriggio del 10 luglio1956, mentre lavorava in campagna,venne travolto da un toro in corsa. Venne trasportato d’urgenza all’ospedale di Alghero, dove morì dopo qualche ora. Una morte molto simile a quella del giovane vaccaro Juanne Arina, mirabilmente raccontata e sublimata da Antonino Mura Ena in “Jeo no ippo torero” poesia che mi son permesso di tradurre in musica».

Una esperienza bella e intensa...

«Fino alla fine, mi ha commosso ieri l’applauso dei detenuti e del personale del carcere di Bancali, è stata una standing ovation che ho sentito vera come accade raramente ».

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