La Nuova Sardegna

«Uno studioso lucido e vero che amava il senso dei saperi»

di Giacomo Mameli
«Uno studioso lucido e vero che amava il senso dei saperi»

Il ricordo della collega e amica Gabriella Da Re, curatrice del Museo di Armungia Era un caso di “antropologo nativo” che studiava la sua stessa cultura e società

14 gennaio 2017
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CAGLIARI. C'è un gruppo di studentesse davanti alla stanza 48 al terzo piano della facoltà di Lettere sotto il colle di Buoncammino di Cagliari. Era il regno di Giulio Angioni, l'antropologo morto nella mattinata di giovedì. Le ragazze capiscono quale perdita abbia avuto la cultura sarda. «Avrei voluto discutere la tesi di laurea col professor Angioni, ne aveva in lista altri dodici, mi aveva detto che non sarebbe stato serio dirmi di sì, avevo apprezzato questa onestà intellettuale», dice Francesca Lai, nuorese. Angioni insegnava a Lettere. A Lingue - lo stesso insegnamento di “Antropologia culturale” - era di Gabriella Da Re, autrice del libro “La casa e i campi, divisione sessuale del lavoro nella Sardegna tradizionale” uscito nel 1990 per Cuec. Con Angioni aveva esplorato il sistema ereditario e parentale (Pratiche e saperi. Saggi di antropologia, Cagliari, Cuec, 2003), assieme al complesso rapporto tra memoria storica e costruzione delle identità collettive. E' stata Gabriella Da Re a curare il Museo storico ed etnografico “Sa domu de is ainas” di Armungia, luogo dell'anima anche per Angioni.

Le ultime parole che le ha detto?

«Due mesi fa, nei giorni del primo ricovero. Si rendeva conto da quale morbo era stato colpito. Aveva detto tre parole, testuale: ho vissuto abbastanza. Si era fermato per alcuni istanti. Poi mi aveva confidato di aver avuto una vita piena, ricca di affetti e di amori».

Lei ha più volte sottolineato “quel fare ironico e minimalista” di Angioni.

«Era il suo tratto, la sua cifra umana e professionale, una delle sue caratteristiche per me più rassicuranti, mi aveva risposto che l'importante era il riconoscimento per lui e per una sua opera letteraria».

Lei ha sempre amato l'antropologo, non tanto lo scrittore. Perché?

«Non ho timore di dire che quando Giulio ha deciso di dedicarsi soprattutto alla scrittura creativa e alla letteratura ho sofferto. L'ho sentito come un abbandono. Più di altri colleghi antropologi avevo apprezzato “Sa Laurera”, il lavoro contadino in Sardegna, Cagliari, pubblicato dalla Edes nel 1976. L'avevo bevuto e attinto i miei primi temi di ricerca da esso per approfondirli e farne una trattazione monografica (il lavoro delle donne, l'eredità dei beni e così via). La mia copia della prima edizione è quasi distrutta e piena di fogli e foglietti. L'attenzione alle tecniche, ai saperi tecnici, al fare, all'operare sulla materia per trasformarla, in una parola al lavoro come momento fondativo di identità, al dialogo con la natura che instaura mi ha sempre coinvolto».

Parlare di “Sa laurera” è come portare su un tabernacolo laico il lavoro di chi zappa.

«Ho sempre considerato “Sa laurera”, che traccia una descrizione dei lavori contadini, la rappresentazione di un mondo, in un certo senso l''invenzione' di un mondo premoderno che affidava alla ‘sapienza delle mani’ la risoluzione dei suoi problemi di sopravvivenza. Forse sono l'unica che pensa che quest'opera sia il miglior romanzo di Angioni. Glielo avevo anche detto. Le sue opere letterarie, nella cultura generale, hanno poi preso il sopravvento».

Giulio Angioni ottimo parlatore in dialetto, ottimo conoscitore delle lingue.

«Ho sempre invidiato di Giulio la capacità di imparare le lingue straniere e l'impegno nel farlo. Ma soprattutto ne ho invidiato la competenza del sardo che fa di lui un antropologo nativo, come si chiamano in antropologia gli studiosi, un tempo rari, che studiano la propria stessa cultura e società. Io ho quasi solo una ‘competenza passiva’ , essendo una veneta di Arborea, e che in casa ha sempre sentito parlare il veneto o l'italiano. Il sardo era la sua lingua materna e poteva molto più di me comprendere i pensieri, i saperi tecnici e le concezioni del mondo e della vita dei contadini della sua Trexenta, proprio a partire dal parlato. Mi rivolgevo a lui per avere lumi su una parola complessa e dai risvolti semantici ambivalenti. Una nozione su cui abbiamo parlato molto è stata quella di “ereu”, oggetto di un mio saggio, che ha significati più complessi di quanti molti parlanti sardo pensino. Giulio amava anche riflettere sulla lingua e sul ruolo che essa ha svolto e svolge nel definire il mondo».

Ma non era manicheo, contestava la sedicente “limba sarda comuna”.

«Avversava le teorie che affidavano alla lingua un ruolo esclusivo nella costruzione delle identità collettive. Sapeva che esistono saperi ‘impliciti nel fare’ e che esiste un imparare e un fare talvolta indicibili. In ambito antropologico questo punto è stato uno dei suoi maggiori successi».

Scrittore ma soprattutto professore. Il suo rapporto con gli studenti.

«Non erano semplici le lezioni di Giulio. Erano sempre connesse profondamente alla sua ricerca e qualche volta un po' noiose. Non faceva sconti. Non si preoccupava di essere sintetico e di servire premasticati i duri bocconi della teoria. Era essenziale. Raccomandava a me e agli altri docenti più giovani di non perderci a dire particolari che non avevano valore formativo, per amore di completezza o per mostrare quanto ne sapevamo. Lo scopo era essere lineari e lucidi su temi centrali della disciplina e su questo battere, insistere, convinto com'era del valore formativo della disciplina di cui valorizzava continuamente, anche nelle scelte di politica accademica, il nesso con la filosofia».

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