La Nuova Sardegna

Giulio Angioni Ritorno a Guasila del suo profeta

di Giacomo Mameli
Giulio Angioni Ritorno a Guasila del suo profeta

Oggi il paese ricorda l’antropologo scomparso «Un luogo dove rifugiarsi e dove sei più vero»

17 febbraio 2017
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GUASILA. Il suo paese, che era Guasila e che aveva letterariamente ribattezzato Fraus, era ed è «una villa sospesa su una piana» dove un certo Paulinu «ne ricorda gli sguardi pazienti di uomini e animali, i visi con tracce di lunghe fatiche sotto le intemperie». Un luogo sacro dove Giulio Angioni tornava «quando qualcosa mi tormentava dentr» perché «in paese sei più vero», perché Fraus lo rendeva «capace di dare senso all’ostinazione di esistere in questa indecisione tra cielo e terra, mare e laguna, nel mondo in guerra anche per i nostri luoghi».

Tornare in paese. A Fraus, nella casa del rione Funtana Idda, tornava a respirare «una boccata d’aria buona» perché solo dove hai visto la luce, dove hai pronunciato le prime parole di un lunghissimo, interminabile vocabolario di romanzi e poesie, era possibile «rammendare la vita di tutti noi. E un pezzo di pasta che stava fermentando nell’orcio di terracotta. Per il pane della prossima volta». Chissà che cosa decideranno i suoi paesani, che cosa deciderà (un museo, una Fondazione, una piazza, un monumento?) il sindaco Paola Casula che lo aveva ricordato «fuori casa», a Settimo dove Angioni viveva e dove aveva uno studio con tutto il suo sapere, i suoi tanti saperi che parlavano di antropologia, ma anche di storia e letteratura, di agronomia e filosofia. Raccontava le «fiamme di Toledo» e il lebbrosario di Santa Gia, città distrutta da parte dei pisani. Se spargeva «Il sale nella ferita» ti faceva viaggiare in quella Berlino «ancora divisa dal Muro» dove «due compaesani sardi, di Fraus, s’incontrano per caso dopo vent’anni, scatenando i ricordi, in particolare della vita e della morte del fratello di uno dei due, un camionista emigrato come tanti altri isolani». E «l’altro compaesano», chissà perché, «è uno studioso della vita contadina, che in seguito a questo incontro si propone di ricostruire i tempi e i modi della scomparsa di Benito Palmas, avvenuta nel periodo dell’occupazione delle terre tra gli anni Quaranta e Cinquanta».

Il profeta e la sua patria. È importante che Guasila renda onore a Giulio Angioni. Educativo anche per tanti altri centri della Sardegna dove altri figli, che illustri sono stati, non sempre hanno avuto i riconoscimenti che avrebbero meritato. Guasila, senza aspettare né premi Nobel né tempi biblici, dà un buon esempio in tempo reale, perché la “patria” esalta un suo “profeta” che non amava la ribalta.

Il piacere della cultura. Tornava spesso al suo paese Giulio Angioni, a incontrare i fratelli, ci stava a pranzo e a cena, tornava dalla mamma Mercede. «Tornava – ricorda il suo miglior amico, Salvatore Atzori – dal fratello Rodolfo che porta il nome del nonno morto sul Carso, quasi assieme all’altro fratello Emanuele». Ancora Atzori: «Qualche volta era allegramente presente, sempre a Guasila, in ristorante con i coetanei e il suo atteggiamento era sempre quello del vecchio compagno di scuola». Partecipava «a qualsiasi manifestazione culturale: presentazioni di libri, dibattiti, mostre, anche alla presentazione di un opuscolo di un compaesano, Umberto Annis, di semplice cultura elementare, invalido, al quale piaceva creare storie ambientate qui a Guasila. E a quei testi semplici dava il valore del racconto letterario. Perché Giulio godeva nel vedere i suoi paesani discutere di cultura».

Ragionare insieme. Scriveva molto. Diceva di voler ripubblicare, «aggiornare scritti di decenni fa, tutto si può attualizzare». Organizzava, sollecitava le scritture di altri. Nel 2007 era stato Angioni, per la casa editrice Cuec, a «mettere insieme nella loro diversità quelli che mi hanno dato retta» per inventarsi un’antologia del presente con il libro “Cartas de logu” dal sottotitolo “Scrittori sardi allo specchio”. Aveva voluto aggregare, fare gruppo, ribaltando il “mal unidos”. Voleva dimostrare quasi l’impossibile, che potevano ragionare insieme di Sardegna e di sardità, con tanti altri, Francesco Abate e Milena Agus, Alberto Capitta e Giulia Clarkson, Pietro Clemente e Marcello Fois, Maria Giacobbe e Gavino Ledda, Paolo Maccioni e Salvatore Mannuzzu, Luciano Marrocu e Michela Murgia, Bianca Pitzorno e Mariangela Sedda, Giorgio Todde e Bruno Tognolini.

Il sogno dell’identità collettiva. Perché «nella narrativa sarda di oggi» Angioni trovava «centrale il tema del mutamento, e quindi anche il tema del ritorno a qualcosa che non è più e che magari si vorrebbe ritrovare. Si tratta spesso di un andirivieni tra passato e presente, magari per non avere troppa paura del futuro, a volte ridotto a una minaccia». Sognava «una identità collettiva, a sua volta fatta di varie identità sovrapposte a scatole cinesi, l’una dentro l’altra, sempre in movimento come il fiume». Angioni di Fraus non amava fare l’eremita dentro i nuraghi. Diceva: «Nel nostro piccolo, in Sardegna, forse siamo stati sempre più o meno in contemporanea o a rimorchio di ciò che accade oltremare. Perciò siamo un po’ più ricchi» perché «pianifichiamo il paesaggio come risorsa durevole», perché «siamo diventati multiculturali, meta di migrazioni neocoloniali, mentre da millenni qui il forestiero arriva in armi o da padrone». Si chiedeva se c’era «una funzione orientratrice mai avuta» nella «nuova vitalità della letteratura sarda». E aveva una speranza: «chissà che non sia vero».

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