La Nuova Sardegna

«Diciamo no alle fabbriche di morte»

di Daniela Paba
«Diciamo no alle fabbriche di morte»

A Cagliari incontro con Carlo Cefaloni organizzato dai gruppi pacifisti sardi di matrice cattolica

13 marzo 2017
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CAGLIARI. Un incontro a Montecitorio, domani a Roma, con i movimenti pacifisti internazionali e i deputati che li appoggiano. Perché le bombe di Domusnovas non possono essere un problema sardo, ma questione nazionale. Perché un territorio, già in crisi, non può essere lasciato solo a combattere l'economia di guerra.

Questo il risultato del convegno «I nodi della guerra» organizzato dalla Scuola di partecipazione politica «Domenico Mangano» nei giorni scorsi nell’aula magna della facoltà di Ingegneria dell’università, ospite Carlo Cefaloni, giornalista e direttore della rivista Città Nuova.

«Parliamo di questioni di fatto – ha esordito Cefaloni – Le bombe prodotte a Domusnovas vengono vendute all’Arabia Saudita che le usa nello Yemen e qui cadono su ospedali, scuole, mercati. Causando la morte di migliaia di vittime innocenti. Tutto ciò suscita un’indignazione temporanea, il tempo del servizio in tv e poi passa». Davanti a una platea di studenti, di rappresentanti del mondo accademico e della politica, dei gruppi pacifisti di ispirazione cattolica, Cefaloni ha posto come paradigma la questione etica: «Possiamo rendere la fraternità una regola di vita del tessuto civile, oppure siamo condannati ad accettare la sconfitta?».

Il senso della domanda risulta chiaro quando lo schermo allestito in aula magna rimanda l’interrogazione del Movimento 5 Stelle all’allora ministro degli esteri Gentiloni, a proposito delle bombe italiane vendute all’Arabia Saudita: «Non esiste nessun embargo per l’Arabia Saudita, altrimenti l'Italia si adeguerebbe. Stiamo collaborando con le Nazioni Unite per una soluzione negoziale del conflitto yemenita». E se è vero che tutto il male del mondo non può messo sulle spalle dei lavoratori della RWM di Domusnovas, tuttavia Cefaloni ha ricordato la legge 185 del 1990, quella che dice che l’Italia non vende armi ai paesi in guerra, specie se responsabili di violazione dei diritti umani, in sintonia con l’articolo 2 della Costituzione. «Quella legge non nasce come un’azione dall’alto, ma perché le lavoratrici della Valsella handissero “Io questa cosa qui non la faccio”; un’azione dal basso che ha visto i missionari girare l’Italia a mostrare pezzi di obice che erano prodotti in quella fabbrica».

Ma che cosa è cambiato da allora? Che cosa è cambiato da quando, nei primi anni del 2000, quando si venne a sapere che la fabbrica sarda di polvere da sparo destinata alle miniere aveva ricevuto sei milioni di euro per riconvertire la produzione da civile a militare e questo scatenò la protesta di tutti i pacifisti? «E' accaduto – ha spiegato Cefaloni – che il pil, grazie a scelte politiche dietro le quali c’è il prevalere di uno scema di valori inaccettabile, incorpora oramai gioco da azzardo, armi e illegalità. E’ accaduto che il gruppo industriale Finmeccanica, ora Leonardo, che ha come azionista di riferimento il ministero delle Finanze, ha concentrato la sua attività nel settore difesa e sicurezza a scapito di quella civile».

A dimostrazione di quanto queste linee strategiche incidano sulla politica industriale c’è il fatto che l’esportazione di armi dall’Italia è molto diminuita verso i paesi europei ed è invece sensibilmente aumentata nei confronti del Medio Oriente, un quadrante internazionale esplosivo. Dietro il mercato delle armi non c'è dunque una strategia di difesa, ma la necessità di inserirsi in un sistema governato dai grandi gruppi industriali e dalla finanza internazionale. Inoltre l’economia di guerra, avverte Cefaloni, che possiamo ormai chiamare WarFare, cresce di fatturato ma non crea nuovi posti di lavoro, come invece fanno altri settori di tecnologia civile avanzata. «Anche le cluster bomb usate in Siria – ha denunciato Cefaloni – erano prodotte fino a poco tempo fa a Colleferro, a quaranta chilometri da Roma, in una fabbrica della famiglia Agnelli. E ora che quella produzione ha contaminato le falde acquifere del territorio, mancano i soldi per bonificarle. Intanto lo stesso gruppo industriale ha partecipato alla scalata di Alitalia e Finmeccanica ed è al nono posto tra i produttori di materiale bellico. Perché se produci armi le devi anche vendere. E siccome la Germania non può vendere armi all'Arabia Saudita, che tutti sanno essere il più grande finanziatore dell'Isis, lo fa tramite lItalia». «Una scuola di politica come quella che opera qui a Cagliari – ha concluso Cefaloni – serve per creare consapevolezza e studiare soluzioni. Ripartiamo da qui. Siamo riusciti a riconvertire a usi civili la fabbrica di mine Valsella, possiamo farlo anche a Domusnovas. Non sarà subito, ma è un punto di partenza».

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