La Nuova Sardegna

Marcello Fois: «La letteratura è suspense, senza non c’è romanzo»

di Paolo Curreli
Marcello Fois: «La letteratura è suspense, senza non c’è romanzo»

 I thriller dello scrittore nuorese nella collana in edicola con la Nuova

13 aprile 2017
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SASSARI. Marcello Fois (nato a Nuoro nel 1960) è una delle personalità più importanti della letteratura nazionale, ha percorso i territori del giallo sin dagli esordi della sua attività, per approdare poi alla grande saga familiare, ma sempre con uno spirito indagatore, attraverso anche a una meticolosa raccolta di indizi, allo studio degli intrecci e delle storie degli uomini. Oltre che un grande narratore Fois è anche un esperto “orologiaio” della meccanica della narrativa, è autore di sceneggiature per il cinema e la tv, ha scritto per il teatro e un libretto per l’opera lirica, collabora con la scuola Holden fondata da Baricco, il più prestigioso laboratorio italiano di formazione per gli aspiranti scrittori.

Il giallo è un genere della letteratura, o tutta la letteratura è un giallo?

«Tutta la letteratura si base sull’assunto del cambiamento di condizione dalla normalità all’incidente, questo ribalta il punto di vista, lo mette in crisi. La soluzione rapida e concreta fa perdere l’interesse, non c’è motivo per seguire una storia risolta. In fondo è la riproduzione di un’inquietudine, siamo portati a dare delle etichette ogni genere lo definiamo in modo diverso. Ma la struttura della narrazione è un accedere a una soluzione attraverso un percorso a ostacoli. Se non ci sono ostacoli non c’è romanzo».

L’intreccio, la trama, il colpo di scena. Sono strumenti o il fine della scrittura?

«Ci sono sempre stati due partiti. Per alcuni è più importante una scrittura di qualità, ma questa è una condizione un po’ generica, per altri una buona trama è fondamentale, ma poi magari, si lasciano andare a troppe sciatterie nello scrivere. Dualismo che si rompe nei grandi romanzi dove l’ambiguità non esiste. Anzi direi che proprio questa è la condizione per riconoscere un grande romanzo. Anche i romanzi più arditi e sperimentali nella scrittura sono così, esiste un progetto e la trama è sempre sottesa e fondamentale».

Quando il lettore si immedesima nei panni della vittima o dell’eroe è perché la trama ti acchiappa con la suspense?

«Questo avviene ai grandi lettori, capaci di non confondere la lettura con la visione. Un lettore protagonista e non spettatore, capace di vestire i personaggi, di ambientarli e magari tentare di prevederne le mosse».

I suoi gialli che la Nuova propone sono ambientati nella sua Nuoro, protagonista d’eccezione il poeta e avvocato Sebastiano Satta?

«Tutto il ciclo di Bustianu ha avuto un’importanza forte dal punto di vista personale. Al centro il rapporto con la mia città. I miei primi romanzi non erano concilianti, con Bustianu abbiamo fatto pace e aperto un altro versante, un percorso più pacifico di memoria che non dimentica i problemi naturalmente».

Penso all’epoca in cui queste storie sono ambientate, allo scontro tra culture: il codice barbaricino e le leggi dello stato. Si può raccontare il mutamento sociale col giallo?

«È fondamentale farlo, c’è un racconto sociale che riguarda un luogo che deve capire di cosa fa parte. Chi l’ha detto ai sardi che erano diventati italiani? Così come oggi la scelta di essere europei, che determina il rapporto con le istituzioni, gli inglesi non hanno capito cosa era l’Europa. Il codice barbaricino è un termine contemporaneo che ci serve per comprendere, all’epoca certamente non lo chiamavano così».

Al centro di questi movimenti la straordinaria figura di Satta...

«Bustianu era un progressista con una mentalità libera, un avvocato capace di scendere in campo al fianco dei poveri, intendeva la giustizia sia come professione che come missione sociale».

C’è anche una bella storia d’amore...

«Anche quello è un ingrediente del romanzesco, ma in questo caso avvenne veramente e fu davvero violentemente osteggiata».

Un percorso che l’ha portata dal giallo alla saga familiare dei Chironi e al mutamento di genere?

«Anche quello dei Chironi è uno statuto. Specie se protagonista è una grande famiglia, ci sono dei territori dove costruire una storia capace di abbracciare un sistema. Mi piace l’indagine che ti permette di sviluppare anche la storia apparentemente più leggera. Capisci molto su cosa sei e perché la tua città è cambiata, nel nostro passato c’è la chiave di lettura del presente. Il romanzo storico alla fine è quello che racconta l’oggi con più tranquillità e distanza».

Tornerà al giallo?

«Direi che sono tornato, in qualche modo, ai miei primi lavori come “Dura madre” e “Ferro recente”. Uscirà a maggio “Del dirsi addio”, una storia ambientata tra Bologna e Bolzano che mi permette di uscire dal debito locale e dalla saga familiare per aprire una nuova fase. Un noir immerso nel contemporaneo confuso e inquieto dove protagonista è un commissario giovane, un uomo fragile, esponente della generazione nata negli anni ’80. Personalità informi anche dal punto di vista morale, nati convinti di essere ricchi biologicamente e senza sforzo».

Perché noir che differenza c’è col giallo?

«Il noir è la condizione freudiana del giallo. Nel giallo ti chiedi “chi l’ha fatto”, nel noir invece “perché l’ha fatto”».

La cronaca nera è ancora fonte di ispirazione?

«Insomma... Mi pare invece che certa letteratura è brutta perché vorrebbe fare del giornalismo, viceversa c’è del giornalismo brutto e sbagliato perché vorrebbe fare letteratura».

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