La Nuova Sardegna

Mannuzzu: «La tensione verso la verità che muove la letteratura»

di Costantino Cossu
Mannuzzu: «La tensione verso la verità che muove la letteratura»

Lo scrittore apre oggi la serie degli otto romanzi con “Il terzo suono”

21 aprile 2017
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di Costantino Cossu

«Nansen, avendo studiato le correnti marine e aeree dell’Oceano Artico ed avendo osservato che sulle spiagge della Groenlandia si ritrovavano alberi e detriti che dovevano essere di origine artica, pensò di poter giungere al Polo facendo trasportare la sua nave dai ghiacci. Così si lasciò imprigionare dai ghiacci e per tre anni e mezzo la sua nave si mosse solo in quanto si spostavano, lentissimamente, i ghiacci». Il testo, riportato da Salvatore Mannuzzu in “Cenere e ghiacci”, è quello della parabola dell’esploratore norvegese che Antonio Gramsci racconta alla moglie Julca in una lettera del 1927, spedita da una cella di San Vittore. Parabola, per Gramsci, l’idea di Nansen, della condizione in cui il dirigente del Partito comunista d’Italia si trovava dopo essere stato gettato in un carcere mussoliniano: chiuso dai ghiacci, ma non immobile, perché la corrente storica in cui l’autore dei “Quaderni” si sente inserito – il movimento di emancipazione dell’umanità intera attraverso l’azione politica del proletariato – continua nonostante tutto. Alle considerazioni di Gramsci, Mannuzzu nel suo saggio aggiunge: «I ghiacci sono l’immagine del mondo “grande e terribile”; e qui e adesso della condizione del prigioniero; delle spaventose difficoltà di questo rivoluzionario prigioniero. Resistere è difficile, è arduo mantenere illuminata, proiettata al di là delle sbarre, la ragione. L’esempio di Gramsci è che ci si può riuscire: si possono conservare le radici, mantenere i legami con la realtà – vita e tempo che sia. Legami sottili, quasi invisibili, ma tenaci alla fine più di tutto».

Intervistiamo Mannuzzu per telefono; da settembre l’autore di “Procedura” è in un istituto di cura, dove fa riabilitazione dopo una brutta frattura. Suo è il romanzo, “Il terzo suono”, con il quale la Nuova Sardegna apre oggi in edicola la collana “Maestri sardi del giallo”. E dal giallo come genere letterario cominciamo il nostro colloquio.

Qual è il suo rapporto con questa particolare modalità narrativa?

«Sia chiaro: io non sono un giallista. Non lo sono mai stato. Certo in “Procedura” e nel “Terzo suono” c’è un delitto sul quale bisogna far luce. Ma sia in questi due testi sia in tutti gli altri miei libri la scrittura ha uno scopo del tutto differente rispetto alla soluzione di un caso investigativo. Scrivere è per me un complesso lavoro di autoanalisi. Ovviamente, non nel senso che parlo di me. Nel senso, invece, che la scrittura parte da interrogazioni – mai esplicite, mai dette nel testo – che originano dalla vita che mi è toccato di vivere e dal suo intrecciarsi con la vita degli altri nel solco del tempo; in modo che l’autoanalisi diventa analisi. Analisi della realtà. Il giallo mi serve a questo. Così come del resto avviene in altri miei libri con il gotico e persino con il romanzo d’appendice. Sono generi di cui torco i moduli espressivi, compiendo su di essi un’operazione sperimentale (alla fine io sono un formalista). Le soluzioni formali, però, non sono fine a se stesse; sono lo strumento che mi permette di partire dalle mie interrogazioni, dalle mie ossessioni, per muovere alla ricerca della verità. Ricerca che già in partenza si sa senza esito. In letteratura non è la fine del viaggio che conta. È il viaggio. Non è la verità, ma la ricerca, la tensione verso la verità».

Come adopera il genere, adopera anche i luoghi: Sassari e la Sardegna.

«Sassari e la Sardegna, sì. Scrivo sempre solo di ciò che conosco. Parto da ciò che conosco. E Sassari è la comunità che custodisce le esperienze nelle quali affondano le mie domande. Ma oltre Sassari anche il Montiferru, luogo nel quale ho vissuto per qualche tempo. O Stintino e l’isola dell’Asinara. Guardando poi alla Sassari di oggi, mi viene da pensare a un sonetto in cui Pompeo Calvia attribuisce a Enrico Costa, sul letto di morte, un’invocazione per la città: “Pa Sassari ha invucaddu cariddai”. Questa, credo, rimane la chiave indispensabile di ogni nostro oggi e di ogni nostro domani. Non c’è altro andare che questo dentro la realtà incerta e faticosa della vita di ciascuno di noi, dentro la gremita e buia realtà della Storia, in cui è arduo trovare un varco. Il nostro andare ha diritto alla giusta pietà».

Scrivere ieri e scrivere oggi. Che cosa è cambiato?

«Potrei dirle che sono vecchio e che, si sa, ai vecchi non piace mai molto la realtà che muta. Facciamola pure questa tara. Mettiamoci anche che recentemente non mi sono stati dati molti motivi per essere sereno rispetto al mondo. Anche al netto di tutto ciò, mi sembra sia davvero difficile dirsi soddisfatti di quanto arriva nelle librerie. È il contesto dentro il quale sta il lavoro degli scrittori che è cambiato. Quando a decidere sono prevalentemente – dico prevalentemente perché poi qualche testo valido ci sarà pure – ragioni di tipo commerciale, lei capisce che la tensione verso la verità e la pietà che muove la letteratura viene meno. E gli esiti sono disastrosi, non solo in letteratura. Non è un bel mondo quello che consegniamo ai nostri figli e ai nostri nipoti. E però ricordiamoci, sempre, di Nansen».

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