La Nuova Sardegna

Mister Poof, l’uomo delle nuove identità 

di Alessandro Marongiu
Mister Poof, l’uomo delle nuove identità 

“Il mio vero nome” di Mauro Pusceddu in edicola con la Nuova Sardegna

02 giugno 2017
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«Sometimes truth is stranger than fiction», cantavano anni fa i maestri del punk melodico Bad Religion: e avevano ragione, perché realmente ci sono volte in cui la verità è più strana dell’invenzione di fantasia. Prendete ad esempio Mister Poof, nel nome del quale si apre “Il mio vero nome” del magistrato e scrittore Mauro Pusceddu, in edicola da oggi con La Nuova Sardegna per la collana “Maestri sardi del giallo”: è un tale, altamente qualificato, capace di eliminare ogni traccia dell’esistenza di una persona e di crearle un’identità completamente nuova in un luogo in cui nessuno potrà mai raggiungerla. Dopo una vita passata a scovare chi cercava di nascondersi, Mister Poof ha saltato la barricata e ora aiuta chi lo paga a scomparire, arrivando perfino a disseminare il mondo di falsi indizi per depistare gli inseguitori. Questo personaggio così fuori dall’ordinario, inoltre, accetta un lavoro solo se gli piace la storia del tale che gli si rivolge: in caso contrario si alza e se ne va, lasciando il malcapitato ai suoi guai. Appunto a lui si affida in apertura il protagonista di Pusceddu, uno che da cancellare ha ben più di un misfatto nel suo passato e nel suo presente. Ebbene: Mister Poof esiste davvero. Al secolo Frank M. Ahearn, per una cifra tra i dodici e i ventimila euro fa dissolvere nel nulla chiunque: purché gradisca la sua vicenda personale, come dicevamo, e purché non si tratti di un evasore, di un poliziotto o di un pazzo criminale.

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Chiediamo a Pusceddu, qui al debutto solista dopo i due romanzi scritti con il collettivo Elias Mandreu, come ha saputo di Mister Poof, e se è stato quest’ultimo la scintilla per “Il mio vero nome”, o se un’idea per la storia esisteva già.

«Era la prospettiva – risponde – che mi serviva. La storia nella sua struttura principale c’era già ma, mancava di immediatezza. Quindi l’ho riscritta in prima persona. “Scorre di più”, mi son detto, ma ancora non andava bene, mancava di direzionalità: a chi sta raccontando questa storia il protagonista? E perché? Poi ho letto per caso di Mister Poof. È stato amore narrativo a prima vista. Era il personaggio perfetto perché aveva due caratteristiche: si occupava di persone in fuga e, per farlo, ascoltava le loro storie per decidere se aiutarle. Con lui improvvisamente fu facile creare una narrazione con una struttura dialogica con l’accadere rimesso alle sole parole del fuggiasco. Mister Poof diventava il grande giudice della storia e soprattutto – e me ne sono accorto solo alla fine – una metafora del lettore. Su questa nuova struttura, quasi metaletteraria, ho riscritto tutto e inevitabilmente anche la trama è cambiata».

Mister Poof non è il solo elemento del reale a entrare e innestarsi nella narrazione. C’è infatti anche il caso Moro: a cosa deve il suo forte interesse verso questa vicenda?

«Un fatto generazionale. Sono nato nel 1969. Quando sequestrarono Aldo Moro ero un bambino, ma ricordo tutto benissimo come un dramma enorme, senza che fossi consapevole del contesto. Ero incapace di distinguere, considerare, ipotizzare, persino odiare. Ho semplificato tutto in una pura contrapposizione tra bene e male. Crescendo arrivò la voglia di capire, di appassionarmi a tutto quello si poteva leggere sul tema con un approccio bulimico, ossessivo come se dovesse ancora saltar fuori il dato oscuro che ci mancava, la chiave esoterica di comprensione del mistero che si evolveva in un complotto, che annullava tutte le possibili responsabilità in una brodaglia dove nessuno era colpevole, perché il vero colpevole era ancora una misteriosa entità da rivelarsi. Mi salvò Sciascia da questa aporia: lessi “Il contesto”, scritto prima della morte di Moro e mi sembrò delinearne profeticamente il motore. La severità di Sciascia è modernissima e impone di fuggire dalla visione catartica del complotto. Tutti colpevoli non vuol dire nessun colpevole, ma che ciascuno è colpevole. I personaggi del mio libro nascono così, contraddittori passeggeri fantasma che escono anni dopo dal bagagliaio di una Renault 4 rossa».

Durante una recente presentazione del romanzo a Sassari ha sostenuto che una caratteristica della scuola sarda del giallo è che non parte mai da fatti reali: perché?

«Noi sardi abbiamo un rapporto demoniaco con la memoria, è l'ombra che il tempo proietta dei fatti e la temiamo, sappiamo che nessuna ira è davvero tremenda se non si imbeve di memoria, che la trasforma in faida, o semplicemente in ricordo capace di rigenerare nuovo dolore a ogni scintilla. Uccidiamo in die nota, per dirne una, se vogliamo che la memoria renda il dolore più acuto. I giallisti della scuola sarda rispettano la memoria e ciò che è capace di sprigionare in colpevoli, innocenti e in tutti quelli che stanno in mezzo. E fanno bene: se il noir è fiction, si sta alle consegne. Si inventa».

Qual è la storia vera che, quando l’ha sentita, le ha fatto dire: a questa non posso assolutamente credere?

«Due storie successe nel mio primo anno di vita: che il Cagliari ha vinto lo scudetto e che l'uomo di quella tecnologia è andato sulla luna. Penso che la vita abbia voluto stupirmi da subito con queste due storie, condannandomi a viverle e a non ricordarle, se non leggendo. Leggo ergo esisto».

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