La Nuova Sardegna

Alla ricerca della felicità «La strada è la decrescita» 

di Fabio Canessa
Alla ricerca della felicità «La strada è la decrescita» 

Serge Latouche, il teorico della fuoriuscita ambientalista dal neoliberismo Critica radicale al capitalismo senza regole. E un omaggio a Zygmunt Bauman

03 luglio 2017
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GAVOI. L’omaggio della giornata è a un grande pensatore come Zygmunt Bauman, scomparso all’inizio del 2017. L’attore Felice Montervino legge una riflessione del filosofo sulla dipendenza tecnologica. Parole quanto mai attuali, anche se scritte già diversi anni fa. Aveva inquadrato tutto alla perfezione Bauman, da osservatore acuto, illuminato, spiazzante e profetico qual è stato. Sul palco di Sant’Antiocru arriva subito dopo un altro grande studioso: Serge Latouche.

Cappello da marinaio bretone, a sottolineare le sue origini che tiene a evidenziare cantando anche un pezzo dell’inno della terra dalla quale arriva. Ma Latouche è un cittadino del mondo, parla diverse lingue. Compreso l’italiano. E anche molto bene. Con lui c’è il regista Maurizio Zaccaro che ha voluto Latouche, insieme ad altri liberi pensatori, nel suo documentario “La felicità umana”. Un film che in qualche modo è legato anche a Gavoi perché Zaccaro racconta che proprio quando si trovava qua nel 2011 con Ermanno Olmi, grande amico del paese barbaricino, iniziava a sviluppare il progetto di questo lavoro che prende il titolo «da un discorso dell’ex presidente dell’Uruguay Mujica, ma l’idea nasce dalla lettura tanti anni fa del saggio “La conquista della felicità” di Bertrand Russell».

Ma cos’è la felicità? Questa la domanda sulla quale è costruito il dibattito. Per spiegare la sua posizione Latouche parte da uno dei protagonisti della Rivoluzione francese, Saint-Just, e usando le sue parole ricorda come la felicità era una nuova idea in Europa ai tempi. «Perché è legata alla modernizzazione. Prima non si parlava di felicità, ma di ricerca della beatitudine, della gioia nell’aldilà. Con la modernità passiamo dal cielo alla terra, la felicità diventa una cosa materiale e individuale». Portando avanti il discorso vengono citati Cesaria Beccaria, Adam Smith, Antonio Genovesi. Insomma il pensiero del diciottesimo secolo che introduce un nuovo modo di vedere tante cose. Una riflessione illuministica che con il tempo a portato a identificare sempre più la felicità con la ricchezza. Ma si può misurare il buon vivere con il Pil? «È una promessa tradita – sottolinea Latouche – quella della felicità per tutti legata alla crescita, perché la felicità è un sentimento interiore che solo in parte può essere conseguenza del benessere materiale. La ricchezza non basta. Anzi, quella che può essere indicata come una componente per la felicità, il reddito, a volte distrugge altre componenti».

Il paradosso è quindi che i più felici sono Paesi come Vanuatu e Costa Rica, «mentre noi viviamo nello spettacolo dell’abbondanza, quello simboleggiato dagli scaffali del supermercato, e intanto i giovani sono precari o disoccupati». Un discorso che si lega anche a quella che Latouche definisce colonizzazione dell’immaginario, l’occidentalizzazione del mondo che porta a un suicidio culturale. All’omologazione planetaria che distrugge le differenze. «E c’è poi il grande inganno della pubblicità, che segue la regola: per consumare bisogna rendere infelici. Punta infatti a renderci insoddisfatti di quello che abbiamo, a farci desiderare quello che non abbiamo. Pensiamo alle persone che sono disposte a passare la notte davanti al negozio per avere subito il nuovo iPhone».

E allora come suggerisce Zaccaro citando Tiziano Terzani, «più che di felicità dovremmo parlare di contentezza. Saperci accontentare». Terzani che lo stesso Latouche indica tra i grandi precursori della decrescita. Forse la via giusta via da intraprendere per la ricerca della felicità.



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