La Nuova Sardegna

«Ecco come Berchidda è diventata laboratorio»

di Andrea Massidda
«Ecco come Berchidda è diventata laboratorio»

Paolo Fresu racconta i trent’anni della rassegna, al via oggi

08 agosto 2017
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SASSARI. Dal primissimo concerto, nel 1988, fatto in un’atmosfera letteralmente familiare (nel senso che tra il pubblico c’erano soprattutto parenti e amici) sino alle performance memorabili come quella del sassofonista norvegese Jan Garbarek, davanti a duemila persone. Dai ragazzini su motorini smarmittati che facevano avanti e indietro proprio mentre sul palco si stava esibendo un artista di fama mondiale sino alle finte guardie del corpo rifilate a Ornette Coleman. E ancora dalla decisione di allargare la rassegna a ben venti centri urbani dell’area intorno a Berchidda sino a quella di rifare nella tenuta dell’Agnata, a Tempio, il tributo a Fabrizio De André. Ieri pomeriggio, mentre era in viaggio sul treno da Napoli a Livorno, Paolo Fresu, cioè il papà di Time in Jazz, ha provato a sintetizzare trent’anni di festival sfogliando un immaginario album di fotografie e a tratti stupendosi da solo di quanti ricordi meravigliosi e aneddoti si celano dietro una rassegna che con il passare del tempo è diventata una vera e propria industria con rilevanti ricadute economiche sul territorio. «Abbiamo seminato moltissimo e spesso raccolto altrettanto», dice.

Premessa necessaria: quando Fresu scelse coraggiosamente di mettere su una rassegna jazz nel suo sconosciuto paese ai piedi del monte Limbara, era di sicuro un trombettista molto promettente, ma non ancora quella star internazionale che adesso tutti conoscono e lodano. «Ero un pischello di 26 anni – racconta sorridendo – e a pensarci bene non avevo nemmeno un’idea precisa di come si dovesse organizzare un festival. Però avevo visto con attenzione le esperienze già nate a Cagliari con Jazz in Sardegna, che aveva portato nell’isola grandissimi musicisti, e persino a Sant’Anna Arresi, nel Sulcis. A quel punto mi chiesi perché non fare qualcosa del genere anche a Berchidda. Perché non provare a far venire gli artisti che si esibivano a Umbria Jazz in questo luogo che nessuno aveva mai sentito nominare. Magari, pensai, con la forza della loro musica potrebbero portarsi dietro tanta gente. Insomma, è con simili riflessioni che iniziò questa scommessa».

L’ESORDIO. «Intanto va detto che la prima edizione di Time in Jazz si tenne a settembre, cioè dopo la tradizionale festa di Berchidda. Sul palco si esibirono musicisti come Billy Sechi (indimenticato batterista cagliaritano prematuramente scomparso dodici anni fa - ndr), il contrabbassista romano Bruno Tommaso e se non ricordo male c’era anche Marcello Piras che proiettava film sul jazz. Fu, diciamo così, una situazione particolarmente gradevole ma molto raccolta: eravamo in pochi, cugini e cugine più qualche amico che già ci dava una mano. E c’era piuttosto freddo. Tanto che mio padre alla fine delle serate andava a casa a prendere un bottiglione di acquavite per poi distribuire da bere a tutto il pubblico. Fare una cosa del genere ora sarebbe impossibile. In realtà tutto nacque da un concerto che avevo fatto qualche mese prima all’asilo parrocchiale. In quel momento pensai che il progetto di una rassegna avrebbe avuto un senso».

BERCHIDDA. «E il senso era questo: far diventare Berchidda un luogo dove potessero succedere delle cose speciali. Certo, ero perfettamente consapevole che il mio paese non aveva un’attrattiva turistica, e quella naturalistica l’abbiamo scoperta anche noi qualche anno dopo. Eppure già dall’inizio avevo ben stampata in mente la visione del festival. Sapevo anche molto bene che per attrarre gente a Berchidda, luogo apparentemente senza un granché da offrire, bisognava far succedere cose che da altre parti non accadevano. L’originalità delle nostre proposte è proprio frutto dell’intento di fare a Time in Jazz delle produzioni uniche».

È innegabile che, grazie al festival, in questi anni Berchidda sia cresciuta moltissimo dal punto di vista dell’accoglienza, che abbia preso confidenza con i turisti. «Sono aumentati tanto i posti letto, si è creata una sorta d’industria di turismo diffuso con i b&b e con le case private. I miei compaesani hanno scoperto presto che con la rassegna si poteva guadagnare: dico soltanto che nei giorni di Time in Jazz l’indotto economico è di 1,5 milioni di euro e che la manifestazione ne costa meno di un terzo. Per non parlare della ricaduta in immagine e del fatto che dà lavoro a svariate decine di persone. Persino noi berchiddesi abbiamo scoperto che viviamo in un paradiso, in più ora il paese è diventato il laboratorio perenne di un pensiero artistico».

I CONCERTI MEMORABILI. Tenuto conto che in questi trent’anni Time in Jazz ha ospitato non meno di 1.500 concerti, potrebbe essere difficile sapere da Fresu quali gli sono rimasti più impressi. Tuttavia lui prova a rispondere. «Di sicuro quello del sassofonista Joshua Redman e un altro pianista nella chiesa di Telti, quattro anni fa. Devo ammettere che io, come musicista, mi emozionai molto. E anche mio papà mi disse: questi sono veramente bravi. Per la prima volta ci trovammo perfettamente d’accordo, pur vedendo le cose da punti di vista differenti. Un altro concerto straordinario, con tutto il pubblico commosso, è stato quello di Ezio Bosso, a Mores. Suonai pure io e con noi c’era anche lo scrittore Erri De Luca. Poi quello di Jan Garbarek e quello di Ornette Coleman».

LE GUARDIE DI COLEMAN. E proprio a Ornette Coleman, padre del movimento free-jazz, che è legato uno degli aneddoti più gustosi che Paolo Fresu ricorda. «Io non sapevo nulla – racconta – ma Coleman al suo arrivo a Berchidda aveva chiesto la disponibilità di quattro guardie del corpo. Una cosa impossibile, ovviamente. Ma alcuni giovani volontari del paese decisero di accontentarlo comunque travestendosi da veri bodyguard, con tanto di finto auricolare. Alla fine gli svelammo tutto e lui, che aveva già capito, la prese bene: a Berchidda le guardie del corpo non servono». Un altro ricordo divertente riguarda il grande Pinuccio Sciola: «Per fare la sua esibizione arrivò in paese con due camion pieni di pietre. E quando faticosamente le scaricammo sul palco, gli anziani del posto ci chiesero: ma cos’è, pietre non ne avete trovato qui a Berchidda?» .

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