La Nuova Sardegna

«Un museo etnografico aperto al mondo»

di Paolo Curreli
«Un museo etnografico aperto al mondo»

Parte il 3 ottobre all’Isre di Nuoro il Festival del cinema del reale. Intervista con la direttrice Maura Picciau

30 settembre 2017
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NUORO. «In Sardegna pittura, scultura, tutto è arrivato da fuori. Questo non significa che in Sardegna non esista l’arte, nell’isola si fanno migliaia di pani bellissimi per esempio, ecco questa è l’arte dei sardi». La frase di Federico Zeri torna alla mente visitando il Museo del Costume di Nuoro. Ricchissima esposizione dell’Istituto regionale etnografico che si appresta ad inaugurare il 3 di ottobre la rassegna di cinema del reale IsReal, appuntamento che ha in questi giorni un’anteprima di valore con la mostra fotografica “Isole, un viaggio a Panarea e Lipari”, della fotoreporter e regista Cecilia Mangini.

Direttore scientifico dell’istituto è Maura Picciau, storica dell’arte, curatrice di diverse esposizioni di arte contemporanea, che ha lasciato il ministero dei Beni culturali per approdare, pochi mesi fa, all’Isre.

Cos’è un museo etnografico, qual è il suo “core business”?

«Il nostro museo nasce già moderno nella sua concezione. Sia quella architettonica di Simon Mossa sia in quella legata al senso di un istituto di ricerca attiva, un organismo capace di registrare le pulsazioni del territorio mentre accadono e di raccogliere le immanenze dell’antico. Una presenza centrifuga, con altri organismi di ricerca, un luogo di intelligenze di ascolto e di rilancio».

Insomma tutto eccetto che un deposito, funziona?

«Certo che sì, è la ricezione continua il senso di un museo etnografico. In tutto il Paese ci sono tante piccole raccolte sulla cultura materiale, ma il nostro è sicuramente tra i più importanti in Italia. Riconosciuto da tutti gli studiosi come un centro fondamentale. Un segnale importante sono le acquisizioni che il museo fa e le tante donazioni che riceve. Sono particolarmente felice delle 22 foto che abbiamo avuto in dono da Cecilia Mangini, per esempio. Un museo amato e riconosciuto come luogo della conservazione della memoria. Un’istituzione con un sapere tecnico altissimo, fatto di grandi professionisti che riescono, miracolosamente, a gestire tre musei».

Tornando a Zeri, quindi i nostri “michelangelo” sono qui da voi?

«Il confronto è naturalmente difficoltoso e in fondo scorretto, parliamo di due cose diverse. Però possiamo dire che la cultura materiale in Sardegna ha avuto espressioni altissime di creatività e manualità. È stato il modo di diffondere i saperi alti. Nell’abito tradizionale ritroviamo pattern e decorazioni di derivazione più alta che poi sono mutati e arricchiti attraverso l’interpretazione popolare».

L’abito tradizionale come una memoria materiale?

«Quelli che conserviamo e vediamo sfilare sono gli abiti della festa, manufatti costosi che passano di generazione in generazione. Da noi si sono conservati più a lungo proprio per il valore di fedeltà, il riconoscersi tutti insieme in un valore condiviso. Questa persistenza ha creato quella tradizione di ricerca antropologica di cui l’Istituto è stato protagonista con nomi di prima grandezza».

In questo lavoro domestico riecheggia la frase di Nivola “le nostre cose belle le fanno le donne”?

«È vero, c’è la donna custode e propagatrice della bellezza, la bisaccia che l’uomo porta nei campi è frutto del suo telaio. Una bellezza che è patrimonio condiviso e questa condivisione la ritroviamo in artisti come Maria Lai, anticipatrice assoluta, che porta la relazione tra le persone nell’arte. Oltre tutto anche lei amava regalare oggetti della vita quotidiana che creava».

Cosa è il patrimonio culturale e quanto incide sull’identità?

«Mi piace la definizione dei francesi di “tesoro nazionale”, e la frase di Michele Serra “la cura del mondo si tramanda”. Nella Costituzione questo tesoro appartiene a tutti. Individua le persone e l’insieme, perché ci riconosciamo in esso, come il valore dell’oggetto ma anche del luogo che lo contiene. Per questo anche il paesaggio rientra nel patrimonio, fatto anche di sensazioni fisiche, come gli odori o il vento per noi sardi. L’identità non è mai definita una volta per tutte, è un fattore complesso che spesso non è solo localismo. A Marsiglia nel nuovo museo etnografico del Mediterraneo, il Mucem mi sono resa conto che il luogo, che consideri tuo, e invece plurale e raccoglie tanti altri luoghi».

Verso cosa si rivolge oggi la ricerca etnografica?

«La mutazione del paesaggio, le migrazioni sono campi necessari di indagine. L’etnografia è verità del vivere per questo si rivolge ai campi sensibili del presente».



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