La Nuova Sardegna

La Catalogna madre lontana: nostalgia, mito e desiderio

di Manlio Brigaglia
La Catalogna madre lontana: nostalgia, mito e desiderio

Gli intrecci antichi in tutta la Sardegna e i “retrobaments” di lingua e cultura nella modernità. La richiesta di indipendenza ha riportato l'attenzione sulle vicende che hanno legato i due popoli

14 ottobre 2017
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Quando a Barcellona, il 14 ottobre 1906, prende la parola al primo Congresso internazionale della lingua catalana per parlare delle “Influencies de l’Italia” e dei “diferents dialectes sards en l’Alguer, Antoni Ciuffo d’Alguer ha 27 anni. Poeta, è meglio conosciuto come Ramon Clavellet. Finito il congresso, resta a Barcellona. Vuol fare una rivista, “La Sardenya Catalana”. Ne esce un solo numero, sottotitolo “Fulla Patriòtica dels Catalans d’Italia”. Con essa anche Ramon scompare: sulla sua morte soltanto voci isolate, non sempre credibili. Scompare, come reimmergendosi in quel mare della catalanità di cui si era sempre sentito una molecola, depositata sulla riva orientale.

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COMUNANZA. La storia di Ramon Clavellet è una metafora esemplare della storia di Alghero: la Catalogna come madre lontana, come desiderio e come mito, da ritrovare nella comunanza della lingua, da recuperare anche attraverso un contatto diretto con i fratelli della “banda di Ponente”. “Ritrovare” è il termine più preciso. Ma non si ritrova nulla che prima non si sia perduto, o smarrito. Memorie catalane, in Sardegna, ce ne sono tante. Ma tutte sperdute e magari sepolte, come nelle parole: per esempio, i linguisti dicono che nel lessico dell’isolata Gallura, regione meno toccata dai catalani, ci sono più parole che derivano dal catalano che parole che derivano dal castigliano. Così a riassumere la memoria catalana è rimasta quasi soltanto Alghero. È nel 1353 che Pietro IV d’Aragona mette Alghero nei suoi piani. In due anni, prima la grande vittoria navale sui genovesi e poi, dopo una ribellione filo-arborense, lui in persona assedia la “villa” per sei mesi: quando si arrende caccia l’ intera comunità – più di un migliaio di ribelli – e la ripopola tutta di catalani.

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I GRANDI BASTIONI. Sul finire del Quattrocento Alghero è una delle maggiori città dell’isola. L’Alghero doriana, che la leggenda dice fondata nel 1102, è sepolta sotto l’Alghero catalana. La “fortezza in forma di città”, come l’ha chiamata Ilario Principe, è già disegnata: grandi bastioni, terrapieni, baluardi e torri (ventisette, pare) riplasmano l’ impianto iniziale versandovi un duraturo “contenuto catalano”. Titolo di città nel 1501, nel 1503 papa Giulio II la erige a vescovado, avrà nuovi privilegi sul commercio del corallo. Ma la storia di Alghero come perla oltremarina della Corona d’Aragona è già al termine: nel 1485 Ferdinando il Cattolico ha concesso ai consiglieri algheresi di dare la cittadinanza a chi vogliono. Arrivano sardi, corsi, liguri e napoletani: s’impianta dentro le mura una “razza” che quando la crisi di fine Cinquecento e del Seicento verrà allentando i legami con la Spagna riuscirà ad erodere la stessa catalanità cittadina. A questo punto la Catalogna è ormai più un mito fascinoso che una realtà. Ma anche il mito opera, depositandosi nel più duraturo degli strati antropizzati della storia, che è quello linguistico.

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ARRIVANO I SARDI. La lingua, dunque, come cemento e diversità. Eppure la città è ormai fortemente sardizzata, Tonino Budruni segnala che a metà Seicento, dopo due grandi epidemie di peste, 1582-1583 e 1652, il settanta per cento dei cognomi sui documeuti è di sardi, mentre quelli catalani sono solo il tredici per cento. A metà dell’Ottocento il giornalista Stanis Manca scrive che «d ’algherese catalano è destinato a scomparire». Ma nel 1887 il catalano Eduard Toda mette piede in Alghero, sbalordito di trovarsi fra gente che parla (quasi) come lui. Qui tutto è catalano: «L’aspetto delle strade, la struttura delle case, l’ architettura delle chiese; il marchio speciale della nostra individnalità non s’è cancellato, e dappertutto segna il passaggio della razza catalana». Questa interpretazione della storia d’Alghero apre la strada a tutti i successivi “retrobaments”, il ritrovarsi tra fratelli, catalani di Barcellona e algheresi-catalani. Intanto la parlata deve sostenere anche la concorrenza dell’ italiano.

IL RISVEGLIO. Fortunatamente, questo stesso processo attiva i suoi anticorpi: il riscatto delle minoranze avviene anche come protesta contro la massificazione della lingua e delle idee e contro quel grande “massaggio” internazionalizzante che è il turismo. Negli ultimi cinquant’anni questo movimento si coniuga con il risveglio del regionalismo catalano dopo la fine del franchismo: e in Sardegna c’è una ripresa del discorso “nazionalitario” regionale, nel cui arcipelago trova posto il movimento indipendentista di nascita e lingua algheresi.

INDIPENDENTISMO. Questo “retrobament” è ben altra cosa di quello borghese cui si sono appassionatamente votati alcuni intellettuali algheresi a partire dal 1950. D’altra parte, difficile non riconoscere il ruolo che essi hanno giocato con le loro associazioni, la loro attività letteraria, la fitta corrispondenza con intellettuali catalani (non meno isolati di loro, specie negli anni dai Quaranta ai Settanta del Novecento). Negli ultimi trent’anni le relazioni dirette di Alghero con i catalani si fanno più intense. La cultura batte anche le vie, sempre più frequentate, del turismo: ad Alghero il barcellonese prova la stessa emozione del Toda, l’ algherese a Barcellona si guarda intorno come in una geografia natale. Il quotidiano di Barcellona “Avuy” pubblica ogni giorno, tra quelle degli altri “Paìsos catalans”, la temperatura “de l’Alguer”.

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