La Nuova Sardegna

La tragedia e l’avventurosa esplorazione della libertà Tutte le donne di Grazia

Alessandro Cadoni
La tragedia e l’avventurosa esplorazione della libertà Tutte le donne di Grazia

La relazione di Alessandro Cadoni al convegno di Dorgali sul Premio Nobel Le figure femminili in bilico tra un destino oppressivo e la ricerca della felicità

15 ottobre 2017
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Pubblichiamo un estratto della relazione “Grazia Deledda e il tragico” che Alessandro Cadoni ha letto ieri a Dorgali nel corso della tavola rotonda organizzata da “La pentola delle idee” nell’ambito del ciclo di iniziative “Grazia Deledda Nobel donna: il coraggio di costruire il proprio destino”.

* * *Alessandro Cadoni

Al centro dell’ “Edera” (1908) troviamo le vicende dei Decherchi, famiglia nobile in rapida decadenza. Il giovane Paulu è la causa principale della rovina e del prossimo pignoramento della casa avita; figura che svetta sulle altre è quella di Annesa, figlia d’anima dei Decherchi, a Paulu legata da un amore segreto e scandaloso. Terzo attore è l’anziano don Zua Decherchi, custode guardingo e inasprito di un patrimonio in cartelle di rendita che potrebbe salvare, lo sanno tutti, il decoro della stirpe.

Ma Zua disprezza Paulu, il dissipatore, al quale solo imputa la rovina economica. Tutta la prima parte del romanzo è costruita sul rapporto con questo “vecchio asmatico”: sopportato cristianamente dagli anziani della famiglia, suscita in Paulu e Annesa un odio viscerale, acuito dal fatto che la continua umiliazione a cui è sottoposto trascina l’uomo in stati depressivi limite.

In questo clima matura l’azione del tragico. Paulu intraprende un viaggio alla ricerca di denaro e, in preda all’angoscia, fa recapitare all’amante un biglietto dove annuncia che, se dovesse fallire, si toglierà la vita. Poco dopo, però, riesce, in modo tutt’altro che decoroso (seducendo una vedova «facile e denarosa»), a ottenere il prestito per estinguere l’ipoteca. Annesa non ne è però a conoscenza quando legge il biglietto e, in stato di delirio, fa ciò che lei e Paulu avevano finora solo osato immaginare: in seguito a una violenta lite verbale, soffoca zio Zua con una coperta. Ecco l’atto nefasto, che si dimostra peraltro inutile. Siamo di fronte all’errore, l’hamartìa, che dà luogo allo sviluppo del tragico, localizzato nel fatto centrale: il peccato di omicidio sarebbe stato compiuto da Annesa come sacrificio morale per la salvezza dei benefattori e dell’amante; ma la «salvezza» tramuta se stessa, immediatamente, in «annientamento», secondo le categorie del “Saggio sul tragico” (1961) di Peter Szondi, per il quale l’azione dell’eroe consiste nel tentativo di compiere un atto di salvezza che porta, però, alla conseguenza contraria. Annesa dovrà forzatamente abbandonare Paulu e i Decherchi, col rovesciamento della metafora da lei personificata: l’edera si stacca dal muro e abbandona il sostegno che, in realtà, essa stessa aveva da sempre sostenuto. Paulu prova a trattenerla, ma solo pavidamente: e l’abbandono toglie alla casa quel poco di vita che vi restava.

L’incipit dell’ultimo capitolo è emblematico: «E anni e anni passarono. I vecchi morirono; i giovani invecchiarono». In una tale asciuttezza stilistica è implicito un fatto: coloro che restano, i vivi, sono in realtà già morti. Paulu, smunto spettro dell’uomo d’un tempo, piatisce il ritorno di Annesa. Ciò decreterà tutt’altro che la realizzazione di un happy end: la donna rientra in un «luogo di pena» e si appresta a sposare il vecchio amante. L’edera si riallaccia all’albero e lo copre «pietosamente con le proprie foglie. Pietosamente, poiché il vecchio tronco, oramai, è morto». L’autocondanna di Annesa a specchiarsi nello spettro di ciò che fu amore ne perpetua – anche solo metaforicamente – l’esilio, sprofondandola, con piena coscienza, nel nulla. Il finale non decreta dunque alcuna sospensione di pena: è pienamente e coerentemente tragico. Poco tempo dopo, era il 1910, usciva “Sino al confine”, altro romanzo ammantato di tragico, di venature però differenti, tutto incentrato sulla figura – non priva di qualche tratto autobiografico – di Gavina Sulis, ragazza di spirito e curiosità, letture e immaginazione, costretta però in un ambiente chiuso che la spinge verso una religiosità cieca, quasi ossessiva. Un rifugio apparente è dato dalle nozze con un medico colto e razionalista, e dal trasferimento in continente, a Roma.

È una Gavina cambiata quella che farà ritorno in Sardegna per un periodo di vacanza. Tutto le appare diverso, ora che crede d’aver strappato il velo di superstizione che la annebbiava. Pensando di aver risolto i propri conflitti, vorrebbe ora risolvere, per mezzo del logos, quelli degli altri: scacciare i demoni del fratello Luca, da sempre alcolista; riavvicinarsi alla vecchia amica (e compagna, in una folle competizione devozionale) Michela, che ha nel frattempo dato alla luce una bambina, figlia di Priamo, antico amore (proibito) di Gavina, il quale – non potendola più avere – aveva trovato conforto nell’altra. Gavina non ha però calcolato che al suo cambiamento non corrisponde quello della sua terra e della sua gente. L’incontro finale con Michela è, da questo punto di vista, significativo: la parola annichilita lascia spazio allo scontro fisico e Gavina è colpita dall’ex-amica con un coltello. Convulsa e sanguinante, cosciente di aver rischiato la morte, di essersi spinta «sino al confine», la donna decide di dedicare la sua vita a «fare il bene», convinta di avere finalmente compreso le regole che governano gli individui e il loro stare al mondo.

Giuseppe Antonio Borgese ha dato un giudizio tempestivo e lusinghiero su questo romanzo. L’autore di “Rubè” lamenta però questa parte finale: ovvero la conciliazione dei conflitti della protagonista che annacquerebbe il senso tragico del romanzo. Ma si tratta d’una reale conciliazione? In realtà sembrerebbe che la neofita Gavina abbia solo trasferito in modo fideistico il proprio tremore religioso nel logos (le ultime pagine dal carattere allucinato lo dimostrano), e che sia tormentata da un dover agire imposto dall’esterno, fatalistico, che viene a sostituire il dover credere. Non ripete, insomma, il percorso già compiuto dal Menalca dei “Nutrimenti terrestri” di André Gide, che partiva da una situazione simile a quella in cui Gavina ha vissuto la prima parte della sua vita: «Castigavo con allegrezza la mia carne, e nel castigo trovavo più voluttà che nella colpa – tanto m’inebriavo d’orgoglio nel non peccare semplicemente», dice sull’inizio, per continuare, immediatamente appresso, il racconto di un’avventurosa esplorazione della libertà. Si tratta d’un nodo, pare di capire, che per i personaggi femminili della Deledda – pur nella loro potenza – è ancora impossibile sciogliere. Gavina è perciò avvinta a un particolare stadio del tragico: schiacciata, com’è, tra due vuoti di senso.

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