La Nuova Sardegna

«Io ebreo, deportato per due francobolli»

di Andrea Massidda
«Io ebreo, deportato per due francobolli»

Intervista con Alberto Mieli: il 16 ottobre del ’43 scampò al rastrellamento del ghetto di Roma ma poi finì ad Auschwitz

16 ottobre 2017
4 MINUTI DI LETTURA





Il terrificante rombo dei camion con la svastica impressa sui teloni risuonò dalle 5.30 del mattino in tutte le strade tra via Arenula, il portico d’Ottavia e il lungotevere de’ Cenci. Roma era sì “città aperta”, ma soltanto a ogni nefandezza dei nazifascisti. Il rastrellamento compiuto nel ghetto degli ebrei all’alba del 16 ottobre del 1943 fu un blitz in piena regola, organizzato volutamente nel giorno della festa del Succot per cogliere tutti di sorpresa. I 365 soldati addetti alla “Judeonoperation”, coordinati da quattordici ufficiali e sottufficiali, scesero dai mezzi militari e cominciarono la caccia al giudeo. Con il quartiere circondato, bussarono alle porte e diedero non più di venti minuti a ogni famiglia per radunarsi sulle strade. Urla bestiali, terrore, lacrime, braccia alzate in segno di resa. Ma l’ordine arrivato dal Hitler era tassativo: nessuno deve sfuggire. Il tenente colonnello Herbet Kappler, comandante delle SS a Roma, lo eseguì con il massimo zelo, tanto che alla fine in tutta la capitale furono presi e deportati 2.091 ebrei, 281 dei quali bambini. Tornarono dai lager soltanto in 16.

[[atex:gelocal:la-nuova-sardegna:site:1.16000719:gele.Finegil.Image2014v1:https://www.lanuovasardegna.it/image/contentid/policy:1.16000719:1653420863/image/image.jpg?f=detail_558&h=720&w=1280&$p$f$h$w=d5eb06a]]

Alberto Mieli, ebreo romanissimo, quel “sabato nero” riuscì miracolosamente a salvarsi. Ma la sua libertà non durò molto: fu catturato pochi giorni dopo davanti al ministero della Giustizia, sempre nella zona del ghetto. E ora – lui che è l’ultimo testimone sopravvissuto alla razzia raccontata anche da Carlo Lizzani nel celebre film “L’oro di Roma” – rievoca con gli occhi lucidi e la voce tremolante che cosa davvero avvenne, il terrore che provò e l’orrore che poi vide arrivando nel più grande campo di sterminio della storia: Auschwitz. Un inferno che ormai da anni rivela agli studenti di tutta Italia – ha ricevuto anche la laurea honoris causa dal dipartimento di Studi umanistici dall’Università di Foggia – e che ha riportato nel libro “Eravamo ebrei”, scritto due anni fa con la nipote Ester, giornalista, pubblicato da Marsilio. «Di quel 16 ottobre – dice Zio Pucchio, come lo chiamano tutti a Roma – non potrò mai dimenticare la rabbia delle SS mentre caricavano le persone sui camion. Sento ancora nelle orecchie le urla strazianti delle donne che venivano brutalmente strappate ai loro figli e rivedo il pianto composto di chi inerme subiva quel trattamento e aveva paura».

«In quei giorni di ottobre – ricorda Mieli – con la mia famiglia c’eravamo rifugiati alla Garbatella, allora quartiere molto popolare: alcune famiglie cattoliche avevano “adottato” e nascosto me e gli otto miei fratelli, dividendoci a uno a uno in case diverse. Tuttavia, pur sapendo bene i rischi che andavo a correre, io ragazzino vivace non sopportavo di stare chiuso tutto il giorno dentro uno scantinato. E disubbidendo a mia madre, appena potevo fuggivo in giro per la città. Ora – aggiunge – posso dire che non avere ascoltato le raccomandazioni di mia mamma mi costò molto caro».

Il giovane Alberto venne fermato per strada dagli uomini della Gestapo e della X Mas all’ora di pranzo di una giornata di novembre. «Ci puntarono i mitra addosso – continua –, eravamo sei ebrei e sette cattolici. Prima ci portarono in un posto di polizia dove mi trovarono in tasca due francobolli che avevo comprato qualche giorno prima per aiutare dei partigiani. Poi, intorno a mezzanotte, un torpedone ci trasferì a Regina Coeli. E lì, lo dico senza vergogna, me la feci quasi addosso». Seguirono due interrogatori a base di calci e pugni. «Il terzo invece lo eseguirono facendomi togliere scarpe e calze e bastonandomi sulle piante dei piedi con un manganello. Volevano sapere chi mi aveva dato quei francobolli. Io non sono un eroe, sia chiaro, ma m’inventai di averli trovati per caso». Parole al vento. Così gli aguzzini gli strapparono un molare con una tenaglia e lo buttarono sanguinante in una cella scura e lurida.

La storia tremenda di Pucchio continua sul treno diretto ad Auschwitz. «Ci misero in un carro bestiame – ricorda – e arrivammo di notte. Non capivo nulla, ma non posso dimenticare le urla e i nazisti che riempivano di botte anche gli anziani e i bambini. Sinceramente? Piuttosto che finire in quel luogo infernale avrei preferito morire dentro le Fosse Ardeatine. Almeno lì, un colpo e tutto sarebbe finito subito». E invece Alberto Mieli fu immediatamente marchiato con il numero di matricola 180060. Col pensiero ripercorre l’odore acre dei corpi che bruciavano nei forni crematori, parla del lavoro giornaliero e stremante, dei corpi senza vita ammassati agli angoli dei campi, della stanchezza e della fame cieca che pativano i deportati, quella che ha portato molti di loro alla pazzia e poi alla morte. Fame di cibo, di vita, di libertà. «Non venni nemmeno liberato dall’armata sovietica il 27 gennaio, perché prima dell’arrivo dei russi i nazisti ci portarono nel campo di concentramento di Mauthausen nella famigerata “Marcia della morte”: 620 chilometri sulla neve, a piedi scalzi». Quando un giorno Papa Wojtyla conobbe Zio Puccio gli chiese come avesse fatto a salvarsi da tutto quell’orrore. «Gli risposi: Santità, me lo dica lei, perché io non riesco nemmeno a immaginarlo».

La classifica

Parlamentari “assenteisti”, nella top 15 ci sono i sardi Meloni, Licheri e Cappellacci

di Salvatore Santoni
Le nostre iniziative