La Nuova Sardegna

Sara e gli altri “hikikomori”, eroi fragili in fuga dalla società

di Giovanni Bua
Sara e gli altri “hikikomori”, eroi fragili in fuga dalla società

I ragazzi che scelgono l’autoisolamento. Fenomeno diffuso anche in Sardegna

09 dicembre 2017
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In classe non si alzava mai dal banco. Non parlava con nessuno. E teneva il giubbotto addosso, sempre chiuso fino al collo. «Me lo ha raccontato anni dopo una sua professoressa, l’unica che aveva notato che dentro Sara qualcosa si stava rompendo. L’unica che ha pensato di condividerlo con me». Ci ha pensato tante volte Anna a quel secondo anno delle Medie, quando tutto è iniziato. Si è macerata per mesi, dandosi le colpe per non essersi accorta, per non aver reagito, per non aver trovato una soluzione. Anche perché nel mentre sua figlia Sara quella cerniera l’ha chiusa in faccia al mondo. «Ha iniziato a non volere andare a scuola – racconta –. Prima qualche giorno, poi settimane. Ma soprattutto ha smesso di uscire, di avvicinare i compagni, le amiche. Disegnava, tanto. Al computer. Era brava, lo è ancora. È un momento, pensavo, un momento. Che passerà. E invece era solo l’inizio di un incubo».

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Hikikomori. Sara è un’adolescente sarda di 16 anni, ed è una “hikikomori”. Una delle oltre 100mila persone che in Italia hanno deciso di ritirarsi dalla società. Nell’isola i casi emersi sono qualche decina, ma è probabile che siano svariate centinaia. Difficile fare stime precise di un fenomeno che nelle statistiche ufficiali emerge solo “di contorno”, quando psicologi e operatori delle Onlus provano a orientarsi nell’oscuro universo dei Neet, i giovani che non studiano e non lavorano, sparendo dai radar della società. Un fenomeno così confuso e poco accettato che chi lo studia deve ancora usare “i ferri” di chi per primo ha scoperto sulla sua pelle questa segregazione auto-imposta: i giapponesi. Che dagli anni ’80 a oggi sono arrivati a contare 500mila persone che hanno chiuso col mondo.

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Marco. Da lì è partito Marco Crepaldi, giovane laureato in psicologia sociale e specializzato in comunicazione digitale. Che, dopo aver scritto una tesi sui ragazzi crisalide, si è accorto che le persone che “stanno in disparte” non sono un’esclusiva della rigida cultura orientale. E ha deciso di mettere in rete le sue competenze e di far nascere Hikikomori Italia, un’associazione di informazione e supporto sull’isolamento volontario, che in pochi anni ha registrato migliaia di iscritti, con chat, forum. E i primi gruppi “fisici” d’incontro tra i genitori che stanno germogliando in molte regioni. «C’è chi sostiene ancora che l’hikikomori sia un problema esclusivamente giapponese – spiega lo studioso 26enne – ma purtroppo non è così. È un fenomeno sociale che, con diverse sfumature, riguarda tutte le nazioni economicamente sviluppate. ll contesto sociale nipponico è sicuramente uno dei più competitivi, e non è certo un caso se gli hikikomori nel Paese del Sol levante sono centinaia di migliaia, ma la vera causa scatenate sono le pressioni di realizzazione sociale, molto forti in tutte le società capitalistiche».

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Sara. La mamma di Sara questo ancora non lo sa. La figlia è brava a disegnare, le difficoltose scuole medie sono alle spalle, decide di iscriverla al liceo artistico. «Pensavo che le avrebbe fatto bene cambiare aria. Notavo che usciva sempre meno volentieri. Viviamo in una cittadina balneare, ma anche d’estate lei non veniva mai in spiaggia. Mai a mangiare un gelato. Vedeva solo, ogni tanto, la sua amica del cuore. E si immergeva sempre più nel suo mondo virtuale. Ricco di amicizie, chat, curiosità, frequentazioni».

L’anno inizia e le assenze a scuola riprendono, aumentano. Iniziano le visite mediche. Ma Sara non ha nessun ritardo, nessun “deficit” evidente.

«In questi casi – spiega Marco Crepaldi – le diagnosi sono le più varie. E spesso di tende a confondere le cause con gli effetti. Gli hikikomori possono diventare depressi, o dipendenti dalla rete, possono diventare agorafobici, o maturare fobie sociali. Ma questo avviene a causa dell’isolamento, non ne è la causa».

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Fobia sociale. Sara zoppica per il primo anno di liceo. Inizia il secondo. A singhiozzo. E da gennaio non esce più di casa. Poi la bocciatura, il giorno che si inverte con la notte, per stare dietro ai mondi virtuali. Gli scontri in casa, il nuovo tentativo a scuola.

Arriva anche la diagnosi «fobia sociale». Inutile, se non per il fatto che il sistema scuola la “digerisce”. E Anna riesce ad attivare per sua figlia un percorso Bes. «Bisogni educativi speciali – racconta Anna – che vuol dire che ora Sara non va lo stesso a lezione, ma è giustificata. Io vado a parlare con gli insegnanti quando le assenze diventano di mesi. E magari quest’anno non sarà bocciata ancora».

La battaglia. Ma la vera battaglia è dentro le mura di casa. Anna non si dà pace, cerca in rete. Si imbatte nel gruppo di Marco Crepaldi. Rimane a bocca aperta. Decine di genitori descrivono ragazzi uguali a Sara. Si crucciano come lei per non essere stati più energici nel “buttarli fuori”. Si interrogano se sia colpa di un divorzio, di un atto di bullismo subito. Se c’è qualcosa di rotto che non si può riparare.

Si aiutano insomma. «Non mi sono più sentita sola con questo fardello sulle spalle – spiega lei –. E forse un po’ mi sono perdonata. Ho deciso di affrontare Sara, durante una delle nostre tante discussioni. Le ho urlato in faccia: sei una hikikomori. Lei mi ha guardato e mi ha detto: lo so».

Virtuale. Perché Sara legge, studia, naviga. In un mondo virtuale, certo, che non colma il deficit di socialità “fisica”, ma non per questo meno ricco. «A questi ragazzi ipersensibili, spesso intelligentissimi, il ritiro dal contesto sociale sembra l’unica salvezza da un mondo esterno che li fa soffrire – ha spiegato Matteo Lancini, presidente della Fondazione Minotauro, al recente convengo di Rimini, #Supereroi fragili –. Si pensa, a torto, che siano affetti da una dipendenza da Internet e che sia stato l’abuso di tecnologia ad averli condotti in questo stato di eremitaggio moderno. Invece non bisogna confondere i tossicodipendenti della Rete con i ritirati dal mondo, per i quali invece i social possono diventare, addirittura, una porta verso la realtà».

«Gli hikikomori – spiega Crepaldi – sono ragazzi molto intelligenti, curiosi. Il punto è che sono particolarmente introversi e sensibili. Questo temperamento contribuisce alla loro difficoltà nell’instaurare relazioni soddisfacenti e durature, così come nell’affrontare con efficacia le inevitabili difficoltà e delusioni della vita. Per questo l’ambiente scolastico viene vissuto in modo particolarmente negativo. E lì che inizia il confronto. Molte volte dietro l’isolamento si nasconde una storia di bullismo, ma non sempre. Spesso basta la semplice “pressione di realizzazione” davanti a cui questi ragazzi decidono di difendersi, ritirandosi. Per settimane, mesi, anni. Ma a stupire è che quando decidono di “uscire” sono molto meno indietro di quanto si potrebbe immaginare. Devono ricostruire la loro capacità di affrontare la pressione della vita, ma hanno acquisito competenze, spesso imparato una o più lingue, coltivato passioni e amicizie, pur virtuali».

Passi avanti. Lo scambio tra Anna e sua figlia Sara smuove le cose. «Frequentando il forum dei genitori – spiega Anna – ho capito che affrontare duramente mia figlia avrebbe solo chiuso l’ultima porta. Io dovevo essere sua alleata. Ho scoperto che quando è motivata riesce ad affrontare le sue paure. Ad esempio è uscita per andare a una manifestazione di Cosplay, la sua passione, con alcune amiche che è riuscita a conservare da quando era bambina. Grazie alla presenza di alcune di loro e all’ottimo rapporto con la professoressa di inglese, lingua che lei adora, è andata in un viaggio studio di una settimana a Malta. Ero terrorizzata, ma fiera. Si è di nuovo iscritta a scuola quest’anno. E non era scontato dopo l’ennesima bocciatura. Sembra che stia lentamente guarendo dalle sue ferite. E sono qui, al suo fianco».

L’associazione. Ascoltare, capire, aspettare. «Il principale obiettivo dell’associazione Hikikomori Italia – spiega Marco Crepaldi – è quello di informare, sensibilizzare e tentare di accendere una riflessione critica. Lo scopo è quello di capire, non curare. Affrontare il problema senza stigmatizzarlo e senza giudicare. Ma soprattutto di fornire ai ragazzi italiani che si sentono vicini all’hikikomori, così come ai loro genitori, la possibilità di potersi confrontare, di capire che non si è i soli ad affrontare la sfida».

La difesa. Ognuno ha una sua storia da raccontare, una ferita da sanare, un percorso da seguire. E spesso la “difesa” che gli hikikomori mettono in campo è la loro unica via di salvezza. Dal ritiro sociale si può uscire, insomma, ma bisogna coglierlo negli anni della scuola, quando è “scomodo” e il sistema è costretto ad affrontarlo. Altrimenti si rischia di finire risucchiati in quella enorme zona grigia che, dopo i 18 anni, inghiotte malattie, sindromi, disagi, senza più concedere nessuna attenzione e nessun aiuto.
 

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