La Nuova Sardegna

Don Cannavera: «Chiudiamo le carceri minorili»

di Daniela Paba
Don Ettore Cannavera
Don Ettore Cannavera

Parla il sacerdote "commendatore" per l'attività della comunità La Collina: «Il problema vero sta nel fallimento educativo di genitori, insegnanti, preti»

13 dicembre 2017
5 MINUTI DI LETTURA





La comunità La Collina, a Serdiana, è un luogo dell’anima, capace di abbracciare e sciogliere conflitti e dolore nella sua calma rarefatta, sospesa. Don Ettore Cannavera l’ha fondata nel 1994, per ragazzi tra i 18 e i 25 anni che, condannati dal Tribunale, rischiano di passare dal carcere minorile alla galera per adulti. «Mi ricordo di un ragazzo – racconta don Ettore – arrivato dal carcere da due giorni. Guardando il tramonto dalla terrazza in cima disse: “Ta bellu ch’esti innoi”. Nel carcere minorile le celle al pian terreno danno su un muro. Come uno sta dentro lo decide anche il luogo in cui vive. Anche il posto educa: cominci a capire che c’è qualcosa fuori di te di cui puoi godere, dove puoi rispecchiarti».

[[atex:gelocal:la-nuova-sardegna:site:1.16237666:gele.Finegil.Image2014v1:https://www.lanuovasardegna.it/image/contentid/policy:1.16237666:1653446885/image/image.jpg?f=detail_558&h=720&w=1280&$p$f$h$w=d5eb06a]]

Per il lavoro alla Collina, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha assegnato a don Ettore il titolo di Commendatore. «Quando alle 8,30 del mattino è arrivata la telefonata ho riso pensando a uno scherzo. Mi hanno spiegato che era una cosa seria. Abbiamo deciso di accettare: è un riconoscimento per tutta la comunità. Va usato positivamente, innanzitutto con la Regione Sardegna, che da nove mesi non ci paga».

Da tempo lei sostiene l’abolizione del carcere per i minori. Perché?

«Ventidue anni di lavoro mi hanno convinto dell’inutilità del carcere. L’articolo18 della Costituzione dice: “La pena deve tendere alla rieducazione”. Io aggiungo: anche alla risocializzazione. Non dice “carcere”, la nostra Costituzione, ma “la pena”. Il carcere ti tiene in un freezer e poi ti mette fuori peggio di prima. Tanto è vero che il 70% di chi ha un’esperienza detentiva è recidivo, rientra in carcere. In una normale azienda avrebbero chiuso per fallimento. Ecco quello che dirò a Mattarella quando nei prossimi giorni andrò a Roma per la cerimonia di conferimento del titolo; gli dirò che alla Collina mettiamo in atto la Costituzione.

A cosa imputa il fallimento che ha appena descritto?

«Tutti nasciamo con la propensione al bene, alla giustizia, alla relazione. Perché allora, a 14 anni, un ragazzo segue l’ingiustizia? E’ nato o è diventato delinquente? Cesare Lombroso rispondeva: «È nato delinquente». Ma oggi nessuno può più dire questo. Un ragazzo cui è stato negato il diritto a crescere in un ambiente educativo, lo priviamo anche della libertà? Mi sembra assurdo. Paradossalmente dovremmo punire chi aveva la responsabilità di farlo crescere: genitori, insegnanti, preti, il mondo del volontariato e quello dello sport: tutti gli adulti che l’hanno incontrato. Perché, nella vita, due sono le strade: o mi realizzo facendo il bene o mi realizzo facendo il male. La terza via non esiste. Il carcere minorile è una risposta ingiusta nei confronti di chi è stato privato del diritto fondamentale all’educazione».

Perché mai l’educazione deve coincidere con la libertà?

Un grande pedagogista, Paulo Freire, ha scritto un libro, “Educare: pratica di libertà”, in cui sostiene che l’educazione, che è precisa responsabilità degli adulti, avviene nella pratica della libertà. Il carcere, nonostante la competenza e la buona volontà degli operatori, non riesce perché il ragazzo gioca un ruolo. Un esempio banale: arriva lo psicologo e il ragazzo gli racconta di sé perché quello deve fare la relazione al Tribunale; quando torna in cella, a me dice: “Ettore, ‘ndi n’appu nau de tontesas”, “Ettore, quante fesserie che gli ho detto”. In carcere la relazione autentica non è possibile, e senza relazione autentica non c’è processo educativo».

[[atex:gelocal:la-nuova-sardegna:site:1.16237667:gele.Finegil.Image2014v1:https://www.lanuovasardegna.it/image/contentid/policy:1.16237667:1653446885/image/image.jpg?f=detail_558&h=720&w=1280&$p$f$h$w=d5eb06a]]

Carcere e comunità: analizziamoli in un gioco di specchi…

«Quando in Sardegna hanno progettato quattro nuove carceri ho fatto i conti: si potevano realizzare 80 comunità come la nostra. Qui la recidiva è del 4%. Su 98 ragazzi solo quattro sono rientrati in carcere. E non parlo di casi semplici ma di quelli che hanno anni da scontare: dodici condannati per omicidio, uno per sequestro di persona, uno per traffico internazionale di droga. Ho cominciato con due condannati per omicidio e uno è ancora qui, ma tutti gli altri sono stati reinseriti positivamente. Dal carcere per adulti sarebbero usciti delinquenti. Al ragazzo che ha commesso un reato va data una risposta educativa, non soltanto contenitiva. Alla Collina c’è un progetto educativo comunitario e un progetto individuale, “Tagliato” per ciascun ragazzo. Il progetto educativo dice che il ragazzo deve maturare autonomia e responsabilizzazione».

Non le può maturare in carcere?

«In carcere tu puoi decidere soltanto quando andare in bagno, perché è in cella. Nient’altro. Decidono per te quando devi mangiare, quando devi uscire, quando e se puoi telefonare. La libertà si matura nell’assumersi responsabilità; in carcere non rispondi di niente: soldi non ne vedi nemmeno, se vuoi sigarette devi avere un permesso, se vuoi un colloquio ci vuole il permesso. Qui alla Collina ci sono le regole del Tribunale: non puoi uscire dalle nove alle sette del mattino, non puoi frequentare pregiudicati, non puoi usare veicoli a motore, non puoi usare sostanze stupefacenti, non puoi associarti a persone malavitose. Poi ci sono le regole nostre: devi alzarti alle 6 del mattino, devi vivere del tuo lavoro, devi cucinare, pulire e mettere i soldi per mangiare. Il carcere è puro assistenzialismo che paghiamo noi: un detenuto ci costa settecento euro al giorno. Qui i ragazzi lavorano, hanno 500-600 euro di stipendio. Ne mettono 350 in cassa comune, gli altri 250 sono per loro, ma li gestiamo insieme. Ogni struttura ospita sei ragazzi, in cassa versano 2000 euro con cui paghiamo cibo, bollette, acqua, come una famiglia. Questo è educare: che vivi del tuo lavoro. Tutto il sistema responsabilizza il ragazzo. Poco fa ho avvisato che cenerò qui; quello condannato per omicidio va a fare la spesa, sa cosa serve, quando arriva la bolletta gliela passo, fa i conti…Nel carcere sei un pacco che aspettano di mettere fuori, qui invece imparano a gestire il tuo tempo, il tuo danaro, il tuo spazio. Se entri in un carcere la prima cosa che avverti è la sporcizia, la puzza, il cibo che buttano dalle finestre, il muro imbrattato. Alla Collina tutto è pulito, ordinato. Perché la bellezza può salvare. La bellezza e la libertà».

©RIPRODUZIONE RISERVATA
 

In Primo Piano
Elezioni comunali 

Ad Alghero prove in corso di campo larghissimo, ma i pentastellati frenano

Le nostre iniziative