La Nuova Sardegna

«Così racconto i navy seals professionisti della guerra»

di Giacomo Mameli
«Così racconto i navy seals professionisti della guerra»

Maria Antonietta Mameli, artista sarda di free composition: dalle mostre a New York alla copertina di Time

16 dicembre 2017
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Per la prima volta nella storia editoriale d’Oltreoceano, c’è una firma sarda nella rivista-cult, l’americana “Time”, 26 milioni di lettori, oltre tre milioni di copie di tiratura. È il giornale che ha colto l’attimo dedicando la copertina dell’anno alle Silence Breakers, le donne che nei cinque Continenti hanno denunciato molestie. La firma su Time di venerdì 7 dicembre, è quella di Maria Antonietta Mameli, cagliaritana, avvocato tra Roma, City londinese e Wall Street, da dieci anni fotografa, anzi artista di free composition, arte che crea bellezza anche se deve raccontare le guerre nel mondo. Un video di animazione della cover sardo-americana ha superato i 153 mila contatti su Instagram. Risponde al telefono dalla casa-studio del Greenwich Village. Felice? «Mi sembra ancora surreale. Avevo già collaborato con Time altre volte».

Come vive l’America di Donald Trump?

«Da quando ci sono state le elezioni evito accuratamente di occuparmi di politica».

Progetti in corso?

«Sto lavorando a collaborazioni internazionali. L’articolo del Time è una storia approfondita sui corpi speciali (i navy seal) della milizie America. Mi ha contattato il foto editor, mi ha commissionato un’immagine spiegandomi il tema dell’articolo. Ebbene: l’immagine in copertina è stata creata con tanti scatti e ore di lavoro nella mia camera oscura digitale. Il foto editor ha confermato giovedì che il mio pezzo sarebbe stato scelto per la copertina, venerdì il magazine era in edicola. Quando l’ho visto ho avuto il batticuore».

La prima cosa che ha fatto?

«Ho pensato a mio padre Aldo e mia madre Rita che non ci sono più. Poi ho chiamato mia sorella maggiore, Cristina e mio fratello Fabio, entrambi medici a Cagliari. Ho detto loro: “I made the cover of Time”.

Tutto in famiglia?

«No. Ho frequentato, con diletto a Cagliari, il liceo classico Dettori, quello di Antonio Gramsci. Il greco era la mia materia preferita, rileggevo Saffo, Erodoto, l’Antigone di Sofocle. Mio docente di Storia dell’arte, Franco Masala. Ho chiamato anche lui, ha lasciato un’impronta importante nella mia formazione».

Ricorda il titolo di Time per la sua foto?

«È un titolo sulla grande incertezza che stanno vivendo gli negli Stati Uniti d’America: “We're not frayed at the edges- We're ripped at the dam seamn. How America Is Failing Its Most Elite Fighters”. Tradotto: non siamo sfilacciati ai bordi, le maledette cuciture sono strappate. Come l’America sta deludendo le sue truppe speciali. L'articolo è di W. J. Hennigan».

Si sente una sarda che ha fatto fuggire il cervello?

«A Roma ho lavorato nello studio dell'avvocato Gianni Manca. Diceva: i sardi che vanno via per lavorare in Continente o all'estero hanno talento e una marcia in più, altrimenti non andrebbero via da una terra così bella. Rientro in Sardegna anche più volte nello stesso anno. La magia sarda esiste, ma il mondo è bello ovunque».

Un suggerimento alla classe dirigente sarda?

«Creare le condizioni perché chi ha lavorato all’estero contribuisca a far crescere la Sardegna. Ma ricordandoci che viviamo nel mondo 4.0».

Quella di Maria Antonietta Mameli è una delle storie di “sardi nel mondo” fra le più esaltanti. È la scia virtuosa di quanti, Dna nuragico, insegnano alla London School o alla Normale di Pisa, riveriti a Downing Street, cattedra al King's College o nelle università della California, fanno ricerca nelle più qualificate università europee e non, firmano i restauri della Sagrada Familia, dirigono multinazionali per le tecnologie ambientali e per i materiali compositi in aeronautica. Nel deserto Sardegna che cosa farebbero? La Mameli è tra queste eccellenze nate tra Golfo degli Angeli e Asinara. Aver portato il nome dell’isola anche nel team di Time, è una conferma. Con un percorso tanto normale quanto esemplare.

Nata a Cagliari nella primavera 1969, si laurea in Giurisprudenza – 110 e lode a 23 anni – tesi in Diritto tributario con Franco Picciaredda. Il salto è immediato. A Roma nel 1995, avvocato associato nello studio Piergrossi Villa Manca Graziadei, una villa affrescata in via dei Gracchi. Titolare un genovese con origine sarde di Gesturi. Ricorda: «Il suo inglese parlato e scritto non aveva niente da invidiare ai Lord, lo aveva imparato a 18 anni durante la seconda guerra mondiale a Roma, dove aveva conosciuto soldati scozzesi diventati amici. Mi manda in secondment in uno studio londinese a Liverpool Street».

E il salto negli States?

«Anno 2002. Mi trasferisco a Washington per un master in Diritto internazionale alla Georgetown University. Mi apre le porte dello studio Fried Frank con uffici su Wall Street e vista sulla statua della libertà. Sentivo di voler essere libera, non vivere tra una scrivania e un’aula di giustizia. Scatta la molla della foto».

Più in dettaglio?

«La prima macchina fotografica, una Polaroid, l’ho avuta a cinque anni da mia madre, un’insegnante innamorata del suo paese, Serri, quello del villaggio di Santa Vittoria. Ho sempre scattato. Ho ripreso mio padre Aldo nella chiesa preromanica di san Sebastiano, a Perdasdefogu, dove è nato. Nel 2005 a New York conosco un artista che mi insegna quello che di tecnico c’è da sapere in fotografia. A febbraio 2006 sperimento con una Nikon Fe2 acquistata di seconda mano da Adorama per 350 dollari. Fotografo e compongo. Osservo la gente sui ponti, ai mercati, per strada. Qualche anno più tardi incontro un gallerista che mostra i miei lavori nelle fiere d’arte importanti al mondo, Paris Photo, Basilea, Miami, Beijn, New York».

Lei espone alla galleria Bruce Silverstein, specializzata in foto d’arte. Che cosa ricorda?

«Quanto avevano scritto nel catalogo: “L’opera riduzionista di Maria Antonietta Mameli unisce le componenti più essenziali della fotografia: luce, ombra e forma. Mameli isola l’arte delle minuzie della vita e la nostra comprensione di essa”».

Il resto vien da sé. Con mostre di cui La Nuova Sardegna ha più volte parlato. Bruce Silverstein espone le opere in quattro mostre personali a New York, Miami, in collaborazione con la Columbia University. Lavori recensiti da Time Magazine, Time Lighbox, The New Yorker, Flash Art e Art Tribune. Vicki Golberg le dedica un pezzo sul New York Times. C'è una tappa sarda: «Nel 2011 partecipo alla mostra collettiva del Parco dei Suoni di Riola curata Cristiana Collu all’epoca direttrice del Man. Avevo esposto un pezzo della mia opera intitolata “Human Observations Free Composition”».



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