La Nuova Sardegna

Il cinema cinese tra “tigri” e censura

di Fabio Canessa
Il cinema cinese tra “tigri” e censura

Parla Marco Müller, a Cagliari per guidare il pubblico alla scoperta dei film prodotti in Asia

28 dicembre 2017
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CAGLIARI. Capodanno cinese a Cagliari. Per “Condominio urbano” arriva nell’isola un ospite davvero speciale: Marco Müller. Da oggi a sabato l’ex direttore della Mostra di Venezia (ma anche dei festival di Locarno e Roma) guiderà il pubblico alla scoperta del cinema cinese presentando ogni sera due film scelti per la rassegna curata da Spazio 2001- Cinema Odissea in collaborazione con la Regione, la Fondazione Sardegna Film Commission e la Cineteca di Bologna.

Direttore, come ha scelto i film che saranno presentati a Cagliari?

«Devo dire che in parte è stata una scelta obbligata, perché i calcoli della distribuzione italiana ormai cominciano ad applicare una vera e propria censura sul mercato rispetto al cinema cinese. Alla fine degli anni Ottanta e poi negli anni Novanta aveva una distribuzione maggiore in Italia. Oggi sono rimasti pochi, coraggiosi distributori a proporre qualcosa di cinema asiatico. In particolare la Tucker Film che ha fornito gran parte dei titoli per la rassegna a Cagliari».

Tucker legata al Far East Film Festival di Udine dove quest’anno è stata presentata l’edizione restaurata di “Made in Hong Kong”, il capolavoro di Fruit Chan che si potrà vedere anche alla rassegna. Un film del 1997, l’anno dell’handover, della restituzione alla Cina. Com’è cambiato da allora il cinema che si fa ad Hong Kong?

«È cambiato innanzitutto finanziariamente. Ormai i grandi film di Hong Kong si riescono a produrre, a realizzare, soltanto se riescono a passare la censura e uscire sul mercato continentale. Sono pochi i registi e produttori che si possono permettere di ignorare il mercato della Cina continentale, come ha fatto delle volte Johnnie To. Mentre per esempio Tsui Hark, di cuoi presenteremo a Cagliari il dittico del “Detective Dee”, ha continuato a fare il cinema che voleva fare però a Pechino. E quindi facendo i conti ogni volta con la censura».

A proposito di censura, lei da qualche anno si è trasferito in Cina ed è reduce dall’esperienza di un nuovo festival, organizzato a Pingyao. È riuscito a lavorare con libertà?

«Abbiamo ovviamente un dialogo continuo con le istituzioni locali e centrali cinematografiche, il che vuol dire mantenere un dialogo continuo con la censura. Non c’è dubbio che è presente una parte di autocensura che entra nel nostro lavoro. Io non mando in censura un film con delle scene di violenza insistita o dei nudi frontali con i peli pubici in mostra, perché so benissimo che mi chiederebbero di tagliare il film e ovviamente un festival non può funzionare come un censore e chiedere al regista la revisione di una sua opera. Però devo dire che rispetto a mie esperienze passate, ho fatto il direttore dei programmi a Pechino e del festival Via della Seta, il processo è stato in qualche modo più morbido. Per alcuni film dalla censura ci è stato risposto che per l’eventuale uscita nelle sale avrebbero potuto chiedere delle modifiche, ma che per la presentazione al festival le qualità artistiche erano tali da permetterci di farli vedere senza tagli».

Ma quali sono le caratteristiche di questo nuovo festival?

«Il presidente è il regista Jia Zhang-ke, io sono il direttore. Si tratta del primo vero festival in Cina dedicato al cinema d’autore. Nella convinzione però che gli autori non esistono soltanto nel cinema d’essai, ma possono trovarsi anche nel cinema di genere. Per questo abbiamo preso il nome dal noto film di Ang Lee “La tigre e il dragone”. Traducendo il titolo letteralmente dal cinese il significato è: “Le tigri pronte a balzare e i draghi nascosti”. Le tigri pronte a balzare sono i registi di tutto il mondo, mentre i draghi nascosti sono le gemme del cinema di genere. Abbiamo anche portato, e hanno avuto grande successo tra il pubblico, due particolari commedie italiane: “Ammore e malavita” dei Manetti Bros e “L’ora legale” di Ficarra e Picone».

Un’identità multipla che sembra seguire l’idea promossa anche quando dirigeva la Mostra del cinema di Venezia.

«Ho sempre lavorato con l’idea di non erigere degli steccati che separassero il cinema d’arte dal cinema del mercato, quello autoriale da quello popolare. Per me esiste solo il cinema ed esistono dei film più o meno originali di altri. Un sistema di singolarità che ho proposto anche per la rassegna a Cagliari, facendo con i titoli scelti una sorta di spola tra Hong Kong e la Cina continentale».

Ma dal punto di vista più commerciale il mercato cinese in che direzione sta andando e dove si collocano le produzioni nazionali rispetto a quelle americane?

«In Cina c’è un numero limitato per la quota di film stranieri e ovviamente la parte del leone la fa Hollywood. Però dall’anno scorso è stato varato ufficialmente il circuito d’essai. Sono trecento sale, per la Cina è nulla, ma possono avere un effetto moltiplicatore e mostrare al pubblico qualcosa di diverso».

Lei di diverso, che l’ha colpita particolarmente, cosa ha visto quest’anno?

«C'è un film di Feng Xiaogang che ha avuto parecchi problemi di censura e speriamo si possa vedere almeno al Far East di Udine. In italiano avrebbe come titolo “Giovinezza” ed è tratto da un romanzo della scrittrice Yan Geling».

A parte la Cina, qual è secondo lei il film del 2017?

«Il film con il quale non abbiamo finito di fare i conti e sul quale dovremo tornare più volte, con visioni successive che forse ci riveleranno dei fili per trovare la soluzione dei suoi misteri, è la nuova serie di “Twin Peaks” di David Lynch».

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