La Nuova Sardegna

Monte Santo Il paesaggio e la memoria

di Paolo Curreli
Monte Santo Il paesaggio e la memoria

La narrazione di un luogo misterioso e magico Bellezze naturalistiche e tesori d’arte e cultura

13 gennaio 2018
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L’uomo ha avuto sempre un rapporto mutevole ed emozionante con la natura. Montagne, fiumi, foreste non sono solo lo sfondo abitato ma forze vive con cui l’uomo si è sempre misurato percorrendo la sua storia e alimentando il suo immaginario. Questo incontro tra cultura e natura, una percepita in arrestabile evoluzione, l’altra come mutevole, mite e tumultuosa determinano, in fondo la storia dell’uomo. Questo percorso, questa profonda relazione tra il paesaggio e la memoria viene osservato e studiato nella raccolta di saggi appena edita “S. Elia di Monte Santo. Il primo cenobio benedettino della Sardegna tra storia, arte e devozione popolare” (edizioni All’insegna del Giglio, 34 euro). Un volume di 230 pagine riccamente illustrato a cura degli studiosi dell’università di Sassari Giovanni Strinna e Giuseppe Zichi. Un volume che raccoglie saggi di specialisti di diverse discipline, descrive il territorio di Monte Santo e le sue chiese dalla fase di età bizantina fino a quella tardo-medievale, con un’incursione nella storia otto-novecentesca relativa alle dispute per la gestione della festa campestre di Sant’Elies.

Il profilo maestoso di Monte Santo con la sua perfetta mesa stesa in cima ai suoi 733 metri si impone lungo la 131 a una decina di chilometri da Sassari, ma probabilmente ogni percorso, anche quello dei sardi più antichi, si è dovuto piegare e costeggiare questo inconfondibile tronco di cono di origine vulcanica. Una presenza visibile da tutto il Lugudoro, Goceano, Anglona e fino alla Gallura, che ha determinato l’epicentro geografico del territorio.

Dall’alto del tavolato si domina a sud fino alle lontane montagne della Barbagia, dall’alto si comprendono immediatamente i toponimi di Marghine: il margine dell’altipiano di Campeda e Mejlogu: la terra di mezzo, tra il prosperoso Logudoro e i duri e ventosi territori della Campeda e i boschi impenetrabili che la costeggiano. Se invece guardiamo Monte Santo dalle vicine colline di Siligo e facciamo partire con la fantasia un film accelerato – il timelapse storico che il libro ci suggerisce – , potremo tornare indietro e immaginare la gente che ha abitato i costoni scoscesi e le fertili pianure che circondano il grande cono. Vedremo Monte Santo brulicare di vita nel neolitico e nell’età nuragica popoli antichi che sfruttano le valli ricche d’acqua, le dolci colline, e ne fanno la loro casa da vivi e la loro necropoli – come suggerisce il contributo al libro dell’archeologa Maria Antonietta Boninu –. Villaggi che si stringono intorno ai 27 nuraghi. E già in quella lontanissima epoca il monte è sacro, come qualsiasi crocevia, luogo di incontro e scambio, sorgente e altare naturale. Il film accelerato continua con l’esercito della potente Roma imperiale intento a stendere la rete viaria che attraversa, dal porto di Torres alla lontana Calaris, tutta l’isola. L’epicentro è sempre la valle, le sue sorgenti, le acque termali, si costruiscono terme e l’acquedotto, si coltiva, si vende e si compra il grano e gli altri prodotti della terra. Attività protette dal simulacro di terracotta, ritrovato dagli archeologi, della dea delle messi Cerere .

Il tempo del nostro film scorre veloce è arriviamo al senso centrale della raccolta di studi proposta dal volume. Monte Santo come avamposto della cristianizzazione dell’isola, a sud oltre “la terra di mezzo” del Mejlogu ci sono le tribù indomite del re Ospitone a cui si rivolge il papa Gregorio Magno perché il suo popolo smetta di adorare «le pietre e i legni».

E tra V e VI secolo, in epoca bizantina, sulle antiche terme sorge la chiesa di Santa Maria di Mesumundu. Il monte viene scelto da una comunità di eremiti che riutilizzano gli ipogei preistorici, per vivere la loro religiosità ascetica. Spettacolare la vista attraverso questi grandi massi isolati, denominati ancora oggi Crastu de Santu Liseu, Crastu de Sant’Elia e Crastu de Sant’Enoch. Il culto dei profeti Elia, Eliseo ed Enoch viene indagato dal saggio di Mara Rosaria Marchionibus, mentre la straordinaria storia dell’architettura rupestre bizantina dal contributo di Fabrizio Sanna. Nell’XI secolo, il giudice Barisone di Torres presta fedeltà al pontefice e aderisce alle direttive della riforma gregoriana. Nel 1065 la chiesa di S. Maria, assieme a quelle di S. Elia ed Enoch sul Monte Santo e alla chiesa rupestre di S.Eliseo, vengono donate all’ordine di San Benedetto perché là venga eretto il primo cenobio cassinese. Ma monaci che arrivano dalla Toscana vengono assaliti dai pirati pisani, depredati e spogliati di tutto. Satana apparso in sogno a un monaco aveva offerto il suo aiuto per raggiungere la Sardegna, al rifiuto del sant’uomo viene imputata la triste vicenda narrata quarant’anni dopo dal monaco Leone Marsicano nella Chronica Casinensis. La donazione è testimoniata da una preziosa pergamena conservata a Montecassino: la cosiddetta “carta di Nicita”, redatta nel palazzo giudicale di Ardara, costituisce il più antico documento del Medioevo sardo.

Monte Santo conserva i resti delle culture che l’hanno abitato, nell’epoca moderna diventa meta esotica per i viaggiatori dell’Ottocento e l’interessante saggio di Giuseppe Zicchi ne indaga la storia e l’immaginario, quando il monte diventa rifugio dei banditi (coma racconta il Valery) fino alle campagne di Siligo come sfondo del capolavoro di Gavino Ledda “Padre Padrone”.



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