La Nuova Sardegna

Il fascismo, un regime imperfetto

di Manlio Brigaglia
Il fascismo, un regime imperfetto

Un saggio di Guido Melis: la dittatura di Mussolini come degenerazione dello Stato liberale 

19 gennaio 2018
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Dice Guido Melis che forse questo “La macchina imperfetta”, sottotitolo “Immagine e realtà dello Stato fascista” (Il Mulino, 615 pagine, 38 euro), è il libro più impegnativo della sua carriera. Un po’ esagera, perché ne ha scritto altri (come la fortunata “Storia dell’amministrazione italiana” del 1996, che ancora «si muove», dicono i librai); e altri gliene auguriamo in futuro.

Però è vero che è un libro speciale. Riguarda un tema molto studiato. Ma Melis lo affronta in modo nuovo, applicando un metodo che consiste nel lavorare sui grandi sfondi storici e, al tempo stesso, sui documenti minuti delle istituzioni. Alternando i grandi quadri d’insieme (le statistiche dei capi fascisti, per esempio, o quelle dei grand-commis dello Stato: quanti, di che età, provenienti da quali regioni, con quali cursus honorum alle spalle) alla storia ricostruita sulle fonti d’archivio: l’iter segreto di una pratica o di una certa legge, la minuta di un discorso in cui Mussolini ha cancellato due passaggi chiave, l’epistolario tra due gerarchi.

Oggetto è lo Stato, il marmoreo, monumentale Stato del fascismo, simboleggiato nelle forme schiaccianti dell’architettura del ventennio (anche di questa si parla nel libro, e delle scelte urbanistiche). Ma al tempo uno Stato che, tarlato all’interno, è minato dagli interessi, corrotto, marcio, debole coi forti quanto arrogante coi deboli. O anche semplicemente immobilizzato dall’eterna ignavia delle sue burocrazie: le stesse – dimostra Melis – del periodo precedente (e – l’autore lo ha scritto spesso altrove – delle successive, nell’Italia democratica).

Due parole, per cominciare, su copertina e titolo.

La copertina è molto raffinata: una testa del duce dall’espressione ferrigna, quasi feroce, scolpita dal tedesco Adolfo Wildt. Ma – attenzione – datata 1923-25, prima cioè delle leggi eccezionali e della piena realizzazione del culto del duce. Segno che quel modello di superomismo era già nelle viscere del fascismo delle origini (Melis però dimostra che l’espressione “duce”, in voga tra gli squadristi e nei primi documenti del Pnf, entra singolarmente solo più tardi nel lessico dello Stato: una delle tante asimmetrie).

Il titolo, “La macchina imperfetta”, viene da una pagina di Giaime Pintor scritta poco prima della sua morte e racchiude il giudizio dell’autore sul fascismo: “macchina” nelle intenzioni, ma “imperfetta” nella realizzazione, totalitarismo mai compiutamente realizzato, come dimostrano le tante “prove” che Melis trae direttamente dalle fonti: il fatto che solo alla fine della parabola del regime si imponga la tessera a tutti gli impiegati dello Stato (solo dal 1932 ai nuovi assunti), oppure il tentativo fallito di cambiare a vantaggio dell’interesse pubblico la legge sull’esproprio del 1865; o la sconfitta dei corporativisti nel voler assimilare a quello privato lo stato giuridico dei dipendenti degli enti pubblici economici (e qui si fa sentire la voce autorevole di Santi Romano, il grande giurista presidente del Consiglio di Stato).

E già che stiamo citando questo istituto chiave, vale la pena di sottolineare che Melis (che sul tema ha curato tra l’altro un corposo dizionario biografico) non si limita a registrare l’adesione solo formale al fascismo di questi giuristi (in gran parte uomini del vecchio mondo liberale), ma ne analizza la giurisprudenza, ne esamina l’attività consultiva, studia la forma e il linguaggio delle sentenze, ricostruisce la trama di quella che fu una minuta, discreta attività di recezione delle leggi fasciste volta a inserirle nel mosaico della legislazione precedente (le leggi “fasciste” – denuncerà Grandi, ministro della giustizia nel 1940 – saranno del resto alla fine solo un terzo del corpus complessivo della legislazione in vigore).

Leggi e giuristi: interessantissimo il capitolo dedicato ai maestri del diritto (Orlando, Cammeo, Ranelletti, i superfascisti come Costamagna, i giovani alla ricerca di vie nuove come Mortati e Giannini, l’autore del codice di procedura civile Calamandrei: fini le pagine di Melis sulla sua “collaborazione” al codice); o l’analisi dei Testi unici del ventennio. O tutto il capitolo sullo Stato imprenditore (l’Iri e non solo), realizzato in ambienti non corporativi dal brain trust di Alberto Beneduce (Giordani, Menichella, Saraceno, Cenzato). Ma ci sono anche la magistratura ordinaria, e la statistica (l’Istat di Corrado Gini), i generali e le corporazioni; i sovrintendenti alle belle arti e i provveditori agli studi del ministro Bottai; l’Inps; e soprattutto la provincia, raccontata attraverso i dirigenti delle ex Camere di commercio diventate Consigli dell’economia, o gli elenchi dei podestà, o i repertori delle classi dirigenti del regime disseminate in periferia). E dove le fonti difettano, Melis ricorre alla narrativa degli anni Trenta (il Moravia degli “Indifferenti” e lo sfacelo della borghesia; o Brancati, Levi, Gadda, Pavese, Vittorini). Emerge così un fascismo provinciale, portatore di propri interessi locali, spesso diverso da quello di Roma; e si delinea un’Italia minore ben distante dai fasti delle sfilate ai Fori imperiali.

Insomma, un affresco avvincente, coloratissimo, realizzato su fonti inedite ma anche con largo ricorso a ricerche di altri, precedenti o addirittura in corso (come quella sui “soldi del Partito”). Un po’ come se Guido Melis avesse voluto scoperchiare un grande e popolato formicaio, mettendone a nudo gallerie, cunicoli e nicchie nascoste. E descrivendo, per quanto possibile, l’andirivieni, cioè la vita reale, degli uomini.

Un grande libro per un fenomeno storico non ancora del tutto penetrato. Il maestro Sabino Cassese lo ha definiro «magistrale». Ipse dixit.



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