La Nuova Sardegna

Mille e una pagina per raccontare l’isola

di Alessandro Marongiu
Mille e una pagina per raccontare l’isola

Da venerdì 2 febbraio arriva in edicola la collana “Scrittori di Sardegna”, le voci dei migliori autori sardi contemporanei

25 gennaio 2018
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Quando nel 1988, salutando l’uscita ravvicinata de “L’oro di Fraus” di Giulio Angioni e di “Procedura” di Salvatore Mannuzzu, ipotizzava la nascita di una “scuola sarda del giallo”, Oreste Del Buono non poteva prevedere due cose. La prima, che quella scuola, se mai ebbe tempo e modo di essere davvero, sarebbe di lì a poco confluita nella più vasta via italiana al giallo e al noir per come si è codificata e la conosciamo attualmente (potendo vantare quindi su di essa, nel caso, dei diritti di paternità); la seconda, che con quei due romanzi per vari aspetti assimilabili nasceva qualcosa, sì, ma di natura tutta diversa: nasceva – ipotizziamo noi a trent’anni di distanza, con la comodità del senno di poi – una nuova generazione di narratori isolani.

La collana che La Nuova Sardegna manda in edicola a partire dal 2 febbraio, “Scrittori di Sardegna. Le voci dei miglio autori sardi contemporanei”, da un ampio e qualificato spaccato del percorso che gli scrittori sardi hanno fatto a partire dal 1988.

Legata a quella precedente, post-deleddiana, dei Dessì, dei Satta, dei Masala, la nuova generazione di narratori isolani cerca strade differenti per dire di un mondo e di una terra in rapido e costante mutamento, e che aveva (ha) in Sergio Atzeni l’ideale anello di congiunzione tra ciò che era e ciò che sarebbe stato (e tuttora è). Poco più avanti, nel 1991, nella prefazione – esemplare, e fondamentale per capire tanto il passato quanto l’oggi –, del suo “Narrativa sarda del Novecento”, Giuseppe Marci, facendo salve le peculiarità dei singoli, individuava alcune caratteristiche comuni tra i romanzieri e i novellieri di un secolo che inaugurava nel nome di Giacinto Satta e faceva chiudere, non sarà una coincidenza, con quello di Atzeni. Una di esse era, in maniera inevitabile, l’isola: «Sarà per il bisogno di riappropriarsi, almeno nella pagina scritta, di una storia che raramente hanno avuto l’opportunità di dirigere e di un ambiente geografico intensamente amato e sentito come proprio ma sempre percorso, dominato e devastato da forze giudicate estranee, certo è che i sardi con una quasi assoluta costanza sempre hanno individuato nella propria terra il più appassionato oggetto di scrittura». «Quasi un’ossessione», concludeva Marci, «che meglio potrebbe spiegare la scienza psicoanalitica, più che la critica letteraria». Altre caratteristiche, pure queste inevitabili e ben note, erano il rapporto tra il sardo e l’italiano, il concetto di “popolo” e il “mito della cattiva stella”, i comportamenti «coerenti, fieri e generosi» specchio di una natura percepita «come ambiente irripetibile», di «straordinaria bellezza» e «ferace».

Ma una considerazione essenziale, in sé e per il nostro discorso presente, Marci la faceva prima, nella prefazione, quando diceva che più o meno consapevolmente gli scrittori sardi del Novecento si rivolgevano in prevalenza ai corregionali, perché attraverso le opere di fantasia capissero e riflettessero: «Per i nostri autori il destinatario è qui: inessenziale il pubblico che vive nella penisola, per lo più estraneo e lontano, indifferente ai problemi che caratterizzano l’isola e che traspaiono dalla prosa dei suoi romanzieri».

Ecco: se nella «ossessione per l’isola» si riconosce con agio un tratto di continuità con la precedente generazione e con quelle ancora precedenti, è nell’apertura all’esterno, nella volontà di parlare a un pubblico (inter)nazionale e non solo o non più locale, che si può individuare un primo grande scarto con il passato, quello che giustifica e sancisce nascita ed esistenza di una nuova leva di autori. Tale volontà ha trovato un alleato di ferro – ed è questo un ulteriore elemento di novità e rottura – nel mondo editoriale: che della “sardità” letteraria, genuina o posticcia, vera o presunta che fosse, ha fatto un marchio di successo. Il numero di autori sardi che pubblicano per editori nazionali si è fatto impressionante, ed altissimo è quello di quanti conoscono o hanno conosciuto un notevole riscontro di vendite, per soli meriti artistici o anche grazie alle strategie di marketing: Michela Murgia, Salvatore Niffoi, Flavio Soriga, Marcello Fois, Milena Agus, Cristina Caboni, Cristian Mannu e Gesuino Nemus, buoni ultimi, sono solo i primi a venire in mente. Quello della quantità è un fattore di assoluta importanza per descrivere il fenomeno odierno, perché il moltiplicarsi all’ennesima potenza delle voci, ognuna con una sua legittima visione della letteratura, della Sardegna, del mondo, ha fatto sì che gran parte dell’unità di intenti e sentimenti di un tempo sia andata perduta.

Il punto di partenza, direttamente o indirettamente, rimane sempre l’«ossessione per l’isola», come si diceva poco sopra: ma oltre a questo, ad affratellare le decine di scrittori sardi contemporanei c’è poco altro. Differiscono troppo toni, modi, sensibilità, storie, obiettivi, risultati artistici, perché l’etichetta di “nouvelle vague” possa riguardare altro che non sia, appunto, la quantità. La quale per giunta fa ancora più sensazione se la si rapporta ai relativamente pochi abitanti della regione, un milione e seicentomila circa, e al dato sulla lettura di almeno un libro all’anno che, a dispetto di quanto si favoleggia con orgoglio patriottico, è appena al di sopra della media del Paese. Se ci si limitasse a cifre e statistiche, però, si darebbe un quadro solo parziale della nuova generazione, contraddistinta invece anche da picchi di assoluta qualità.

In proposito, è d’obbligo citare per primo Alessandro De Roma, il cui successo finora è stato inversamente proporzionale a un talento che, esibito fin dagli esordi, con il suo ultimo romanzo è arrivato a quasi piena maturità. Quello che già con “Il primo passo nel bosco” era sotto gli occhi di tutti, con “La mia maledizione” è diventato persino più chiaro: migliore tra i sardi, il ghilarzese è uno dei più validi scrittori di tutto il panorama italiano. E poi: Alberto Capitta, il cui “Alberi erranti e naufraghi” è stato eletto nel 2013 libro dell’anno dagli ascoltatori di Fahrenheit, o Alessandro Stellino, che dopo un paio di ottime prove attende la giusta messa in luce. Quantità, spesso qualità, ampia possibilità di scelta tra i generi più disparati: pur se in uno scenario frammentario e talvolta contraddittorio, la narrativa sarda del Terzo millennio sembra, a tirare le somme, avere ancora molto da dire e da offrire ai lettori.

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