La Nuova Sardegna

«La canzone italiana? Un grande romanzo che racconta il Paese»

di Andrea Massidda

Il critico musicale Gino Castaldo parla del suo ultimo libro L’inizio dell’era moderna nel ’58 con “Nel blu dipinto di blu» 

06 febbraio 2018
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SANREMO. Da “Te voglio bene assaje”, meraviglioso tormentone del 1839, sino al “Ballo di San Vito” di Vinicio Capossela, «l’ultimo dei fuorilegge». Passando per capolavori come “Azzurro”, portato al successo da Celentano nel 1968, e per “Nel blu dipinto di blu”, che esattamente sessant’anni fa, eseguito da Modugno sul palco di Sanremo, insegnò agli italiani come Volare. In un libro gustoso quanto necessario il giornalista e critico musicale Gino Castaldo narra attraverso mille curiosità, aneddoti, playlist e analisi suggestive “Il romanzo della musica italiana”, edito da Einaudi. «Un’avventura mirabolante che dura ancora oggi», dice al telefono dal Teatro Ariston.

Castaldo, partiamo dal titolo: perché “Romanzo” e non “Storia”?

«L’idea è stata dell’editore, ma a me è piaciuta subito: corrispondeva proprio a ciò che avevo in mente di fare. Intanto perché “Storia della canzone italiana” suona come accademico e io non volevo affatto dare quell’impressione. E poi perché effettivamente racconto qualcosa di avvincente, di romanzesco. L’ho capito dopo un anno di faticose ricerche, scrivendo, ascoltando, e anche ridendo».

E allora si può definire un “romanzo di formazione”, come dicono i critici letterari? Insomma, si intravede una maturazione del protagonista (cioè la canzone) oppure c’è una parabola che è già diventata discendente?

«Credo che adesso sia un gran momento, percepisco energie straordinarie. Ma due anni fa alla stessa domanda avrei risposto molto diversamente. Io comunque mi fermo al Duemila: affrontare l’attualità, con i talent, sarebbe stato troppo complicato».

Durante la preparazione del libro che cosa ha scoperto che già non sapesse?

«Ho imparato molto. Ma quello che mi ha stupito è la ricchezza artistica che si è manifestata tra il 1960 il 1985. È qualcosa di sbalorditivo, specie se si confronta con il più recente passato. A quel tempo la canzone riusciva davvero a raccontare la storia del Paese, a tutti livelli: sentimentali, identitari, sociali».

Quanto coincidono i mutamenti della canzone italiana con quelli della società?

«Sino a un certo punto le coincidenze sono impressionanti. Ma ci sono anche casi in cui certi brani sono diventati metafora della società pur non avendo la benché minima ambizione di esserlo. L’esempio più classico è “Fin che la barca va” di Orietta Berti, nato senza alcuna pretesa, ma che poi ha finito per entrare nel linguaggio parlato, trasformandosi in un graffito che ti rivelava qualcosa dell’Italia».

La canzone ha anticipato i tempi o si è limitata a seguirli?

«A volte ha anticipato, altre è stata lo specchio, altre ancora è arrivata dopo. Tra quelle che hanno anticipato c’è senz’altro “Volare”. Quando è stata presentata nessuno aveva ben chiaro che cosa stesse accadendo al Paese, con il boom economico. Ma citerei anche “Rimmel” di De Gregori, del 1974, un album che svela cose che abbiamo capito soltanto in seguito. E così “Titanic”, del 1982».

Che cosa intende quando dice che questo “romanzo” racconta al meglio l’educazione sentimentale?

«Nel suo essere educativa la canzone italiana ha usato prevalentemente l’arma del sentimento, non quella dell’analisi o del raziocinio. E questo ci ha permesso di vivere la nostra parte più misteriosa, quella più difficile da tirare fuori utilizzando soltanto strumenti analitici».

Adesso l’educazione sentimentale è affidata al rap.

«Semmai dovessi fare un sequel di questo libro parlerei del rap. Certo, bisogna essere disposti umilmente a cercare di cogliere qualcosa che a quelli della mia generazione sfugge. Ma dentro il rap qualcosa c’è, lo so. Se non altro ha ripristinato l’egemonia della parola».

Il Festival di Sanremo che ruolo svolge nella trama del suo “romanzo”?

«Devo dire che è stato protagonista molto più di quanto avrei immaginato. Ho rivisto mille personaggi, ascoltato una quantità pazzesca di canzoni e alla fine Sanremo spuntava sempre fuori. Forse c’era stata da parte mia e di molti altri un’eccessiva rimozione».

Poi c’era sempre il Club Tenco, per la canzone d’autore?

«Una situazione paradossale: si veniva a Sanremo ad assistere a due festival completamente diversi. A volte mi chiedevo: ma questo è lo stesso palco?».

Lei dedica ad “Azzurro” un intero capitolo del libro: “La canzone perfetta”. Che cosa la rende tale?

«“Azzurro” spazza tutto come un aspirapolvere: dall’ideologia alle cazzate, dalle emozioni alla poesia. C’è la realtà esterna, c’è un non so che di misterioso, c’è la metafora, c’è l’Italia di fine anni Sessanta raccontata benissimo attraverso lo spaccato di una persona. Ed è tutto in perfetto equilibrio, senza esagerazioni».

Roma, Milano, Genova, Bologna, il Salento. La canzone italiana è come la nostra cucina: riflette quel meraviglioso collage regionale che compone il Paese. Poi c’è Napoli.

«Napoli è un enclave che ha inventato la canzone italiana. Un mondo a parte, e non ha mai smesso di esserlo. I Vesuviani, come io chiamo gli artisti napoletani, sono davvero speciali».

Per concludere, il Sanremo targato Baglioni come sarà?

«Sarà molto particolare, inedito, perché gli ospiti sono numerosi quasi quanto i cantanti in gara. Come due festival insieme: uno con canzoni nuove, un altro con brani celebri e tributi».

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