La Nuova Sardegna

«La mia Accabadora: l’universo solidale del mondo femminile»

di Paolo Curreli
Michela Murgia
Michela Murgia

In edicola venerdì il romanzo capolavoro di Michela Murgia. È il secondo volume della collana “Scrittori di Sardegna”

07 febbraio 2018
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Se si vuole capire la natura di un evento bisogna scoprirne le fonti, e la scrittura di Michela Murgia comincia in un blog. Oggi questi luoghi virtuali appaiono obsoleti, scalzati e spinti sullo sfondo da social più potenti, dove si urla e non c’è bisogno di argomentare. Ma quando Michela Murgia teneva il suo diario in rete sulla sua esperienza di lavoro precario, erano i blog le voci di un popolo che aveva voglia di interpretare e comunicare la propria visione del mondo.

«Se mi guardo indietro quello che sono come scrittrice nasce lì – conferma Michela Murgia –. In quel momento volevo dare voce a un’urgenza politica. Il libro che è nato (“Il mondo deve sapere”), non è un’ opera sul precariato ma il racconto della manipolazione dei rapporti prodotta dal dislivello di potere». Urgenza politica, intervento, impegno, visione di un mondo migliore, argomenti che calzano non sola alla sua attività letteraria ma, come sappiamo, a tutta la sua vita, che ci aiutano anche a comprendere meglio la sua opera capolavoro “Accabadora”. Secondo titolo della collana “Scrittori di Sardegna” in edicola da venerdì con La Nuova.

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«“Accabadora” è un libro su una storia d’amore tra una bambina e una donna – sottolinea Murgia –. Una vicenda dove c’è una figura femminile a cui la comunità delega di prendersi in carico diversi aspetti della vita. L’eutanasia, richiamata dal titolo, e interpretata spesso in maniera pretestuosa, è uno di questi aspetti, ma lo è in maniera accidentale. Centrale è invece il modo di essere donna rispetto a un altro. Se dovessi definire il romanzo nella maniera più breve possibile direi che si tratta di una proposta di nuove relazioni sociali. Mi interessano le storie corali. Il demone di Grazia Deledda era la scrittura il mio è la consapevolezza».

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Il mondo migliore di storia e relazioni delle piccole comunità isolane (e isolate), un universo, parallelo alla modernità lontana. «Io conosco bene quel mondo, ne sono stata protagonista e vittima, e ho vissuto sulla mia pelle l’esperienza degli occhi addosso, delle frasi mormorate e delle allusioni – confessa la scrittrice –. Comunità dove tutti sanno di tutti. Ho sofferto l’invasione del mio spazio, ma oggi, che vivo a Roma dove se dovessi sparire non se ne accorgerebbe nemmeno il vicino di pianerottolo, ecco..., oggi dico che quel reticolo di relazioni è un bene prezioso che non andrebbe perso». Allora il mondo evocato dal romanzo è semplice: difficile ma solidale, quasi alternativo all’egoismo contemporaneo. «In quel mondo esisteva un “io” debole e un “noi” ipertrofico – precisa Michela Murgia –. Mentre ho sempre desiderato un mondo dove la parola “io” non perda di significato e di importanza. Adesso forse accade il contrario, ma nel mio lavoro non c’è nostalgismo. Quello che mi spaventa dell’oggi è il “noi” contro “loro”. Una comunità forte è inclusiva, sono quelle deboli che hanno bisogno di contrapporsi».

In Sardegna ogni racconto, ma anche ogni realtà, fa trasparire qualcosa di millenario, un filo col passato ancestrale, come la figura dell’accabadora, per alcuni reale per altri solo una leggenda. «Le nostre radici sono la nostra forza – dice la scrittrice – perché si attinge a un patrimonio ricchissimo. Ma si corre il rischio che questo diventi l’unico filtro con cui comunichiamo e veniamo interpretati. Della figura dell’accabadora si sa pochissimo, tutte le prove sono di seconda mano. Quando la Chiesa voleva agire contro le figure parasacerdotali, le donne che conoscevano l’antica sapienza delle erbe, per esempio, le imputava di commettere atti contro la vita e l’umanità. In Sardegna, nell’antichità, si svolgeva un sinodo all’anno sempre con l’intento di sradicare riti e credenze arcaiche, anche le prefiche, che cantavano s’attittu per i morti, erano vittime di persecuzione – racconta Murgia– . Nel lavoro teatrale “Quasi Grazia”, che sto portando in scena da questa estate, dove interpreto Grazia Deledda, c’è un momento importante: l’intervista che il giornalista svedese fa alla Deledda è tutta incentrata sul fatto che lei è una portatrice di esotico, un prodotto tipico. Si fa sempre fatica a vedere l’universalità. Asor Rosa lodando il mio lavoro e quello di altri titolò: “La rivincita degli scrittori di periferia”. Ma dov’è la periferia e dove sta il centro lo decidono i potenti».

Il romanzo “Accabadora” sembra aver distrutto questa barriera e la prova sono le decine di traduzioni in tutto il mondo. «Tratta di temi universali per questo che e anche in Cina, chi lo ha letto, è stato capace di comprendere l’ossatura della storia».
 

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