La Nuova Sardegna

Uno sguardo militante sul Medio Oriente

di Fabio Canessa
Uno sguardo militante sul Medio Oriente

Il conflitto con i palestinesi: parla il regista israeliano Avi Mograbi, ospite dell’Accademia di Belle arti di Sassari

21 febbraio 2018
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SASSARI. Arcipelago, galassia. Sono parole che Lorenzo Hendel, curatore del ciclo di incontri con i registi all’Accademia di Belle Arti, usa spesso per spiegare quanti siano e anche molto diversi tra loro gli approcci al documentario oggi. workshop, organizzati nell’ambito del biennio specialistico sul cinema del reale (voluto fortemente dal direttore Antonio Bisaccia e innovativo all’interno di un’Accademia), nei quali si naviga in questo mondo diventato una delle frontiere di avanguardia del cinema. Guidati da grandi ospiti, documentaristi di livello internazionale che portano a Sassari la loro esperienza, il loro modo di vedere la realtà che va ben oltre a un racconto per immagini finalizzato alla divulgazione di un tema secondo una tradizionale visione giornalistica-televisiva. Quello proposto è riconosciuto come cinema. Non a caso i registi che si cimentano in questo genere, con le sue mille sfaccettature, trovano sempre più spazio nei principali festival. Tra questi Avi Mograbi, filmmaker israeliano già passato per Berlino, Cannes e Venezia, che nei giorni scorsi ha tenuto una masterclass all’Accademia. Un modo di lavorare sicuramente particolare, quello del regista, nato a Tel Aviv nel 1956, che molte volte decide di comparire nei suoi film e di aggiungere, dichiaratamente, parti di fiction. Questo pur avendo come punto di partenza la realtà, quella del suo Paese. Al quale non fa sconti. Osservatore critico della società israeliana, ne racconta le contraddizioni attraverso il cinema. Concentrandosi in particolare sul rapporto con i palestinesi. «Fare film in Israele per me significa partecipare alla vita sociale e politica, esprimere la mia posizione sulla realtà e sul presente».

Il punto di vista del regista. Concetto chiave nell’idea cinematografica di Mograbi, quello che attraverso i suoi lavori, raccontando la sua esperienza, cerca di trasmettere anche ai giovani quando è chiamato a partecipare a workshop come quello organizzato dall’Accademia di Sassari. Fare documentari diventa una questione politica e quindi non separabile da una responsabilità etica. Nonostante gli argomenti scomodi, Mograbi racconta di non aver mai avuto problemi a realizzare i suoi film «che comunque non sono molto popolari in Israele, non raggiungono un grande pubblico».

Il regista si può dunque permettere di fare i film che vuole, anche di essere aggressivo con un soldato israeliano a un check-point come si vede in “Avenge but one of my two eyes”, tra i suoi documentari più importanti. «Sembra una scena simbolo di tolleranza – spiega Avi Mograbi – ma in realtà è il contrario, nasconde una situazione di razzismo. Se fossi stato palestinese la sua reazione sarebbe stata molto diversa, avrebbe fatto valere la legge marziale. Israele è uno stato democratico fondato sull’identità, solo se sei ebreo allora sei cittadino, garantito da leggi civili».

Identità costruita anche su una mitologia manipolata che nello stesso film Mograbi prova a smascherare. Così per esempio Sansone, celebrato come un eroe, diventa il primo kamikaze della storia: «In fondo fa crollare il tempio senza fare distinzioni tra colpevoli e no, giovani e vecchi». Film che come gli altri – racconta il regista – nascono da uno spunto, un'idea che poi entra in relazione con la realtà. «Alla fine la maggior parte delle volte sono i soggetti che scelgono me. Certo non puoi andare in giro e riprendere tutto senza un piano, ma l’idea è che tu intervieni sulla realtà e la realtà interviene sulla tua attività di filmmaker. Questo porta a molti cambiamenti rispetto alle intenzioni originali ed è l'aspetto più interessante di questo mestiere».

Una flessibilità presente anche per la realizzazione di quello che al momento è il suo ultimo lavoro: “Between Fences”, su un campo di rifugiati africani. Un film che parte da un laboratorio teatrale con i migranti, oggi sempre meno ben visti dal governo israeliano. Si parla infatti di espellere migliaia di profughi. «Una deportazione – sottolinea Avi Mograbi – che sembra un sarcastico ricorso storico. Con Israele che sta ripetendo l’orrore di cui gli ebrei sono state vittime».

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