La Nuova Sardegna

Quando in tutta la Sardegna regnava il “mammut nano”

di Simone Repetto
Quando in tutta la Sardegna regnava il “mammut nano”

Più basso di un uomo popolò l’isola sino a 50mila anni fa, si estinse per motivi misteriosi

24 febbraio 2018
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Recenti scoperte hanno fatto nuova luce sulla preistoria della Sardegna, circa la fauna che viveva in un territorio insulare diverso dall’attuale. Un animale, in particolare, attira da tempo l’attenzione del mondo scientifico: il mammut. Ma non si tratta dei giganti lanosi dalle enormi zanne cui è abituato l'immaginario collettivo. Erano nani, più bassi della statura media di un uomo, e non avevano predatori naturali. Vissero migliaia anni fa, nel Pleistocene, fino a quando il loro habitat cambiò e si estinsero, insieme ad altri mammiferi minori endemici che, condividendo il medesimo ambiente, subirono gli strani effetti dimensionali dovuti all’insularità, dove le specie più grandi si rimpicciolirono e quelle più piccole fecero l’opposto.

Esemplare endemico.

L’elefante in questione appartiene al genere Mammuthus e alla specie lamarmorai. È considerato l’unico mammut endemico italiano e del Mediterraneo occidentale, per differenziarlo da Mammuthus creticus, un suo simile che visse nell’isola di Creta. Era alto non più di un metro e mezzo e pesava dai sette agli otto quintali. Queste stime, sono state fatte dai paleontologi in base al primo e tutt'ora più importante ritrovamento di resti fossili, scovati sul finire dell’Ottocento in località Funtana Morimenta, vicino a Gonnesa. Il primo a imbattersi nei resti ossei del mammut sulcitano, venuti alla luce durante i lavori di costruzione della strada ferrata, fu il naturalista toscano Luigi Acconci nel 1881. Due anni dopo quei resti furono visionati dal celebre zoologo e paleontologo svizzero Charles Immanuel Forsyth Major (a cui si deve la denominazione scientifica della specie), buona parte dei quali li portò con sé in Svizzera, insieme ad altri fossili di specie animali endemiche, provenienti dal blocco sardo-corso del Quaternario, ancora oggi conservati nel Museo di Storia naturale di Basilea. Ulteriori parti di quello scheletro, si trovano nel Museo sardo di Geologia e Paleontologia “D.Lovisato” dell’Università di Cagliari e nel Museo di Storia naturale e del Territorio dell’Università di Pisa. Inoltre, nel Museo dei Palaeoambienti sulcitani “E. A. Martel” a Carbonia e nel museo di Cagliari sono esposte copie in gesso di parte degli elementi ossei del mammut di Gonnesa. Nel complesso, comprendono un consistente numero di frammenti di costole e vertebre, ossa degli arti inferiori, delle zampe e parte di una zanna.

I denti del Sinis.

Nei decenni successivi, i rinvenimenti sono stati decisamente meno cospicui e infrequenti. Sono infatti stati ritrovati solo dei denti, nel territorio oristanese di San Giovanni di Sinis, in quello sassarese di Campu Giavesu e algherese di Tramariglio, nel dettaglio molari appartenuti al piccolo mammut sardo. Che ha fatto nuovamente parlare di sé l’anno scorso, quando, in due pubblicazioni scientifiche, sono stati descritti la scoperta di un frammento di tibia e di alcune impronte individuate in strati di roccia affiorante, confermando la sua presenza in aree già segnalate, rispettivamente ad Alghero e Gonnesa. Il primo, è stato pubblicato sulla rivista Comptes Rendus Palevol, a cura di Maria Rita Palombo (Dipartimento di Scienze della Terra, Università di Roma), Marco Zedda (Dipartimento di Veterinaria, Università di Sassari) e Rita Teresa Melis (Dipartimento di Scienze Chimiche e Geologiche, Università di Cagliari), mentre il secondo caso è stato descritto da Gianluigi Pillola e Daniel Zoboli (Dipartimento di Scienze Chimiche e Geologiche, Università di Cagliari) nel Bollettino della Società paleontologica italiana.

Il nanismo insulare.

«La recente identificazione di un reperto trovato negli anni Ottanta ad Alghero e all’epoca non riconosciuto come appartenente a un elefante – dice l’archeozoologo Marzo Zedda – è importante per vari motivi. Complessivamente, è stato trovato uno scarso numero di resti di mammut sardo, riferibili a denti e limitate porzioni dello scheletro e pertanto ogni ritrovamento è rilevante per approfondire le conoscenze su questo animale. Nel nostro caso, è l’unico resto di tibia sinora ritrovato. Da un punto di vista scientifico – ha precisato Zedda – la presenza in Sardegna di questa specie è in accordo con le principali leggi dell’evoluzione, secondo cui negli ambienti insulari i mammiferi di medie e grandi dimensioni tendono con il tempo a ridurre la loro taglia per originare forme che spesso sono molto più piccole rispetto a quelle continentali da cui sono originate. Il fenomeno è noto come “nanismo insulare” e si può osservare anche nelle specie di proboscidati trovate in altre isole del Mediterraneo».

I nuovi quesiti scientifici.

Ma la ristrettezza dei dati disponibili, pone ancora molti quesiti sulle particolarità di questa specie. Circa il periodo i cui è vissuto, per il professor Gianluigi Pillola «i dati finora disponibili consentono di ipotizzare l’immigrazione dell’antenato continentale in Sardegna durante un momento non ben definito del Pleistocene medio, raggiungendo le terre insulari a nuoto. Il mammut di Gonnesa, risale a prima del massimo periodo “caldo”, intorno a 125 mila anni fa, che segna il passaggio al Pleistocene superiore».

In quel piano epocale, è supposta la datazione della tibia di Alghero, tra 57 e 29 mila anni fa. Sulla permanenza e diffusione del lamarmorai nell’isola, Pillola aggiunge: «Il numero di individui viventi in uno stesso momento deve essere sufficiente affinché la specie si riproduca, persista nel tempo e si diffonda in un territorio. Sono ipotizzabili comunità analoghe a quelle di proboscidati attuali in ambienti insulari, come nel Borneo. Sull’analisi dei rinvenimenti, i molari sono i resti più resistenti e facilmente fossilizzabili. Nelle fasi post mortem, i resti possono essere smembrati da animali necrofagi e quelli ossei possono essere rimossi.

Se non sepolti rapidamente, si degradano fino alla completa scomparsa. E' quel che è accaduto al molare trovato a Tramariglio, molto smussato a causa del “trasporto” subito».

L’enigma dell’estinzione.

L’estinzione della specie di proboscidato endemica in Sardegna resta ancora un enigma. «Gli studi in atto sui paleoclimi del Pleistocene e datazioni dei depositi sedimentari – continua Pillola – , consentono di ipotizzare uno stress ambientale sfavorevole (variazioni climatiche e impatto sulle risorse alimentari) sempre più crescente, che determinò il declino e la susseguente estinzione».

Un aspetto interessante riguarda l’adattamento climatico, per una specie abituata a frequentare ambienti freddi. «Le curve delle variazioni climatiche disponibili – spiega l’esperto – suggeriscono che i Mammuthus in Sardegna si sono dovuti adattare a climi sempre più miti e alle diverse limitazioni dovute all'insularità. L’aspetto notevole è la drastica riduzione della taglia, visti i quasi quattro metri di altezza di Mammuthus throgonterii, considerato l’antenato putativo del lamarmorai».

Dunque, tassello dopo tassello, si cerca di ricostruire la carta d’identità del mammut sardo: c'è ancora molto da scoprire, e molti indizi e reperti potrebbero essere contenuti in affioramenti che rischiano di sparire col degrado del tempo. Il punto sulle ricerche lo traccia ancora Pillola: «L’analisi della totalità dei resti ossei finora noti, sono stati integrati grazie allo studio eseguito dal ricercatore Daniel Zoboli di tutti i resti custoditi nel museo di Basilea.

Pubblicheremo a breve, in collaborazione con la professoressa Palombo, i risultati ottenuti. Ulteriori studi, riguardano le interessanti orme ritrovate nei pressi di Gonnesa, che possono essere riconducibili al mammut sardo, come i resti scheletrici postcraniali.

Di fondamentale importanza, sono altresì le datazioni Osl (basate sulla termoluminescenza), le analisi sedimentologiche e dei paleosuoli dei siti di maggior interesse contenenti resti di lamarmorai, avviate con un team di ricercatori di Cagliari e Sassari, per stabilire con maggiore precisione il periodo in cui viveva».

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