Angioni, l’identità come un territorio aperto al mondo
di Giacomo Casti
Nella collana Scrittori di Sardegna il romanzo “Doppio cielo” uno dei racconti più avvincenti dell’autore di Guasila
28 febbraio 2018
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Pubblichiamo un ricordo di Giulio Angioni tratto dal libro “Cose da prendere sul serio”, pubblicato dalla casa editrice Il Maestrale. L’autore, Giacomo Casti, è un noto operatore culturale, tra gli animatori dell’associazione Chourmo, che organizza il Festival Marina Café Noir.
* * *di Giacomo Casti
«Un buon consiglio per un neolaureato in lettere?», chiesi anni fa a Giulio Angioni.
«Salire sulle spalle dei giganti. Leggere e rileggere Gramsci», mi rispose. Però, prima di essere un ottimo dispensatore di consigli, Giulio Angioni è stato per me diverse altre cose. Un uomo che poteva mettere in difficoltà, tanto per iniziare. Che è un’ottima qualità, a ben rifletterci. Ci riusciva regolarmente, ancora e da subito non appena ci incontravamo, quando capitava di incontrarci. Ad esempio, non sapevo mai bene come rivolgermi a lui, nel senso del “tu” o del “lei”, nel senso del chiamarlo Professore oppure Giulio, visto che da anni mi aveva dato anche questa possibilità, quella di un rapporto amichevole e di uno scambio paritario.
IL PROFESSORE. Cercavo a volte la via di mezzo, cioè gli davo del tu e però lo chiamavo Professore, in un modo che può sembrare ironico – «Professore, quanto zucchero vuoi?» suona un po’ strano, no? – ma in realtà era il mio tentativo di mantenere le giuste proporzioni tra me e lui.
Che vuol dire che, sino a prova contraria, lui era quello che insegnava e io quello che apprendeva, anche se quando bevevamo il caffè o facevamo una battuta eravamo alla pari. Eppure non era iniziata troppo bene, la nostra conoscenza; ricordo che da studente ho equivocato il suo senso dell’umorismo più di una volta, e qualche volta c’è scappato pure il battibecco.
CAMPI DA GIOCO. Durante il lavoro di tesi di laurea – lui correlatore, sempre cari Felice Tiragallo e Franco Lai – il nostro confronto migliorò decisamente e arrivò lo scambio vero, la franchezza tra persone. Forse per un motivo molto semplice: eravamo entrambi… be’, non so esattamente cosa eravamo entrambi, dato che lui era uno dei più grandi antropologi e scrittori italiani e io sono uno studioso mancato e un appassionato scrivente, però… ecco, forse è la confidenza, o meglio la vocazione alla confidenza con entrambi questi campi da gioco, così prossimi e così distanti, quello dell’antropologia e quello della letteratura, che un po’ ci rendeva affini.
Però così parlo troppo di me. Rendiamoci utili.
Per chi non sapesse, o ha dimenticato alcune informazioni, proverò a integrare il suo breve profilo, quello che capeggiava nel suo sito e in molte terze e quarte di copertine dei suoi libri: «Giulio Angioni insegna Antropologia culturale nell’Università di Cagliari dal 1981. Ama segnalare che ha avuto come maestri Ernesto De Martino e Alberto Mario Cirese, che ha studiato e insegnato in Germania, in Francia e in Gran Bretagna, che ha studiato molto i Gua di Trexenta in Sardegna e che come scrittore ha raccontato soprattutto di un luogo detto Fraus».
I MAESTRI. Con grande stringatezza e una certa dose di ironia, era così che Giulio Angioni, in due righe, si raccontava. È interessante rilevare come, pure nel brevissimo, egli non mancasse di riconoscere e ricordare, come faceva appunto in questa quasi epigrafica nota, il suo duplice rapporto di “discendenza” dai maestri De Martino e Cirese (sebbene sia relativamente semplice considerare Cirese il maestro effettivo e De Martino quello elettivo; elettivo, sì, ma con ruolo seminale). Angioni stesso ha raccontato a chi scrive che una delle sue prime “tesine” di ricerca, da giovane studente, gli fu assegnata proprio da De Martino, all’epoca, come è noto, docente di Storia delle religioni a Cagliari).
Quindi, integrando un po’ a caso il suo ritratto autoriale e umano: Angioni era del 1939, l’ultima generazione ad aver visto una Sardegna ancora primitiva, come qualche volta gli ho sentito dire; ha scritto moltissimo e letto di più (quest’ultimo particolare sempre meno sottovalutabile, dati i tempi); condotto fondamentali ricerche sul mondo agricolo e pastorale della nostra isola; scritto alcuni dei pezzi giornalistici più efficaci e precisi che io abbia mai letto, penso ad esempio a una intervista sul dramma degli incendi pubblicata su Liberazione nel 2009; vissuto e lavorato non solo in Germania, Francia e Gran Bretagna ma anche a Milano, nel suo periodo da migrante, insieme a un mio caro zio ex-tramviere, Nino (lo scoprimmo per caso qualche anno fa); partecipato a diverse edizioni del Festival letterario Marina Cafè Noir, di cui mi occupo, senza mai rompere troppo le tasche, qualità che non sempre tutti gli ospiti rivelano; partecipato (insieme al solito scrivente) a un videoclip della band Ratapignata, nel rispettabilissimo e ormai scomparso ruolo de su bandidori (il banditore).
PADRI E FIGLI. Inoltre: mi ha dato a suo tempo un consiglio strepitoso (appunto: «Sali sulle spalle dei giganti, leggi Gramsci»), mi ha chiesto se volevo «insegnare al babbo a fare figli» per qualche mia ovvietà di troppo e consigliato, senza saperlo, come avrei potuto portare la barba. Ancora di più, credo abbia insegnato a più generazioni di allievi e lettori, soprattutto sardi, che a essere di un luogo piuttosto che di un altro non c’è niente di speciale, ma che a quella specialità – riconosciuta e riconoscibile – che è potenzialmente propria di ogni luogo e ancor di più di ogni persona, ognuno dovrebbe tendere in quanto individuo, senza mai dimenticare il mondo da cui proviene, e anche il modo in cui quel mondo dovrebbe essere e invece non è.
SARDO SENZA VEZZI. Concludo dicendo che cosa davvero penso, quando penso a Giulio Angioni: che è stato un uomo di sinistra senza ostentazioni né nascondimenti, un sardo internazionalista senza tic o vezzi stereotipati, un uomo che metteva in difficoltà, come accennavo all’inizio, soprattutto i luoghi comuni e le menzogne. Per questo è così importante, Giulio Angioni. Per questo leggeremo, e leggeranno, a lungo i suoi libri.
© EDIZIONI IL MAESTRALE, NUORO
* * *di Giacomo Casti
«Un buon consiglio per un neolaureato in lettere?», chiesi anni fa a Giulio Angioni.
«Salire sulle spalle dei giganti. Leggere e rileggere Gramsci», mi rispose. Però, prima di essere un ottimo dispensatore di consigli, Giulio Angioni è stato per me diverse altre cose. Un uomo che poteva mettere in difficoltà, tanto per iniziare. Che è un’ottima qualità, a ben rifletterci. Ci riusciva regolarmente, ancora e da subito non appena ci incontravamo, quando capitava di incontrarci. Ad esempio, non sapevo mai bene come rivolgermi a lui, nel senso del “tu” o del “lei”, nel senso del chiamarlo Professore oppure Giulio, visto che da anni mi aveva dato anche questa possibilità, quella di un rapporto amichevole e di uno scambio paritario.
IL PROFESSORE. Cercavo a volte la via di mezzo, cioè gli davo del tu e però lo chiamavo Professore, in un modo che può sembrare ironico – «Professore, quanto zucchero vuoi?» suona un po’ strano, no? – ma in realtà era il mio tentativo di mantenere le giuste proporzioni tra me e lui.
Che vuol dire che, sino a prova contraria, lui era quello che insegnava e io quello che apprendeva, anche se quando bevevamo il caffè o facevamo una battuta eravamo alla pari. Eppure non era iniziata troppo bene, la nostra conoscenza; ricordo che da studente ho equivocato il suo senso dell’umorismo più di una volta, e qualche volta c’è scappato pure il battibecco.
CAMPI DA GIOCO. Durante il lavoro di tesi di laurea – lui correlatore, sempre cari Felice Tiragallo e Franco Lai – il nostro confronto migliorò decisamente e arrivò lo scambio vero, la franchezza tra persone. Forse per un motivo molto semplice: eravamo entrambi… be’, non so esattamente cosa eravamo entrambi, dato che lui era uno dei più grandi antropologi e scrittori italiani e io sono uno studioso mancato e un appassionato scrivente, però… ecco, forse è la confidenza, o meglio la vocazione alla confidenza con entrambi questi campi da gioco, così prossimi e così distanti, quello dell’antropologia e quello della letteratura, che un po’ ci rendeva affini.
Però così parlo troppo di me. Rendiamoci utili.
Per chi non sapesse, o ha dimenticato alcune informazioni, proverò a integrare il suo breve profilo, quello che capeggiava nel suo sito e in molte terze e quarte di copertine dei suoi libri: «Giulio Angioni insegna Antropologia culturale nell’Università di Cagliari dal 1981. Ama segnalare che ha avuto come maestri Ernesto De Martino e Alberto Mario Cirese, che ha studiato e insegnato in Germania, in Francia e in Gran Bretagna, che ha studiato molto i Gua di Trexenta in Sardegna e che come scrittore ha raccontato soprattutto di un luogo detto Fraus».
I MAESTRI. Con grande stringatezza e una certa dose di ironia, era così che Giulio Angioni, in due righe, si raccontava. È interessante rilevare come, pure nel brevissimo, egli non mancasse di riconoscere e ricordare, come faceva appunto in questa quasi epigrafica nota, il suo duplice rapporto di “discendenza” dai maestri De Martino e Cirese (sebbene sia relativamente semplice considerare Cirese il maestro effettivo e De Martino quello elettivo; elettivo, sì, ma con ruolo seminale). Angioni stesso ha raccontato a chi scrive che una delle sue prime “tesine” di ricerca, da giovane studente, gli fu assegnata proprio da De Martino, all’epoca, come è noto, docente di Storia delle religioni a Cagliari).
Quindi, integrando un po’ a caso il suo ritratto autoriale e umano: Angioni era del 1939, l’ultima generazione ad aver visto una Sardegna ancora primitiva, come qualche volta gli ho sentito dire; ha scritto moltissimo e letto di più (quest’ultimo particolare sempre meno sottovalutabile, dati i tempi); condotto fondamentali ricerche sul mondo agricolo e pastorale della nostra isola; scritto alcuni dei pezzi giornalistici più efficaci e precisi che io abbia mai letto, penso ad esempio a una intervista sul dramma degli incendi pubblicata su Liberazione nel 2009; vissuto e lavorato non solo in Germania, Francia e Gran Bretagna ma anche a Milano, nel suo periodo da migrante, insieme a un mio caro zio ex-tramviere, Nino (lo scoprimmo per caso qualche anno fa); partecipato a diverse edizioni del Festival letterario Marina Cafè Noir, di cui mi occupo, senza mai rompere troppo le tasche, qualità che non sempre tutti gli ospiti rivelano; partecipato (insieme al solito scrivente) a un videoclip della band Ratapignata, nel rispettabilissimo e ormai scomparso ruolo de su bandidori (il banditore).
PADRI E FIGLI. Inoltre: mi ha dato a suo tempo un consiglio strepitoso (appunto: «Sali sulle spalle dei giganti, leggi Gramsci»), mi ha chiesto se volevo «insegnare al babbo a fare figli» per qualche mia ovvietà di troppo e consigliato, senza saperlo, come avrei potuto portare la barba. Ancora di più, credo abbia insegnato a più generazioni di allievi e lettori, soprattutto sardi, che a essere di un luogo piuttosto che di un altro non c’è niente di speciale, ma che a quella specialità – riconosciuta e riconoscibile – che è potenzialmente propria di ogni luogo e ancor di più di ogni persona, ognuno dovrebbe tendere in quanto individuo, senza mai dimenticare il mondo da cui proviene, e anche il modo in cui quel mondo dovrebbe essere e invece non è.
SARDO SENZA VEZZI. Concludo dicendo che cosa davvero penso, quando penso a Giulio Angioni: che è stato un uomo di sinistra senza ostentazioni né nascondimenti, un sardo internazionalista senza tic o vezzi stereotipati, un uomo che metteva in difficoltà, come accennavo all’inizio, soprattutto i luoghi comuni e le menzogne. Per questo è così importante, Giulio Angioni. Per questo leggeremo, e leggeranno, a lungo i suoi libri.
© EDIZIONI IL MAESTRALE, NUORO