La Nuova Sardegna

La lotta delle donne sarde nei turbolenti anni Settanta

Andrea Massidda
Uno scatto di Daniele Longoni fatto a Cagliari l'8 marzo 1977 durante un corteo femminista
Uno scatto di Daniele Longoni fatto a Cagliari l'8 marzo 1977 durante un corteo femminista

Dagli scatti di Daniele Longoni l’occasione per rievocare le battaglie femministe nell’isola

03 marzo 2018
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Cagliari, martedì 8 marzo 1977. Un corteo composto da migliaia di studentesse, impiegate, operaie, casalinghe, mamme e figlie, in generale da donne più o meno attive in politica e nei collettivi femministi, si muove da piazza Garibaldi e percorre rumorosamente l’arteria principale della città, via Sonnino, quella che conduce verso la zona del porto, dove da lì a poco sorgerà il nuovo palazzo del consiglio regionale. È ancora inverno, ma non fa freddo. Anzi, a preoccupare è semmai la temperatura sociale: altissima, come in tutto il Paese. Anche se si sta celebrando la “Giornata internazionale della donna”, la tensione si taglia a fette. Gli agenti della Digos vigilano sulla manifestazione senza tralasciare alcun dettaglio. E le “compagne” del servizio d’ordine stanno bene attente che non ci siano infiltrati tra le file del gruppo rosa. La verità è che per quanto la marcia sia assolutamente pacifica gli incidenti potrebbero comunque essere dietro l’angolo: le facoltà dell’ateneo cittadino sono da giorni quasi tutte occupate e soltanto qualche settimana prima nel popolare quartiere di Is Mirrionis c’è stata una guerriglia urbana tra centinaia di giovani e il reparto mobile della celere, costretto a usare i lacrimogeni e a caricare ripetutamente. La rivolta era nata dopo la morte di Wilson Spiga e Giuliano Marras, adolescenti caduti sotto i colpi d’arma da fuoco esplosi dalla polizia in due distinti episodi. Il motivo? Avevano entrambi forzato un posto di blocco, uno in sella a una motocicletta e l’altro a bordo di un’auto. Un clima incandescente, dunque.

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La foto simbolo. Anche per questo le fotografie scattate proprio durante quel corteo dell’otto marzo da un ragazzo appena diplomato al liceo scientifico Pacinotti (il più politicizzato del capoluogo) rivelano con estrema nitidezza l’aria che si respirava allora, tra non violente rivendicazioni di genere e un’accesa lotta di classe. L’obiettivo della Olympus di Daniele Longoni a un certo punto mette a fuoco e coglie una bambina che sfila. Ha suppergiù dieci anni, i capelli a caschetto e al collo porta un cartello che, con la terminologia dell’epoca, sintetizza perfettamente gli anni Settanta: “Basta giocare con le bambole, voglio giocare anche con le pistole”, è scritto. Nulla a che vedere con l’incitazione alla lotta armata, che pure impazza in ogni angolo d’Italia. Ma poiché lo slogan parla di pistole e non di figurine dei calciatori o di altri giocattoli tradizionalmente maschili, è difficile non ravvisare in quel cartello – che in modo provocatorio chiede soltanto parità tra i sessi – tutto lo spirito del tempo. «È una fotografia alla quale sono particolarmente affezionato – ammette l’autore – e ora, a distanza di oltre quarant’anni, mi piacerebbe sapere chi è la protagonista che appare in primo piano, che cosa fa nella vita, come arrivò a quella manifestazione, e anche quanto le sia servito esserci per il suo percorso di donna. Tengo a precisare che non è in posa, io per raggiungerla feci una corsa. Ma un istante prima dello scatto ci guardammo dritti negli occhi».

Dietro la “piccola ribelle” si riconoscono le iscritte alla sezione del Pci di Pirri che mostrano fiere un lungo striscione riferito alla questione dell’aborto. «Non era facile per un fotografo insinuarsi dentro un corteo così – continua Longoni accennando un sorriso –, un po’ perché il controllo di sicurezza era rigoroso e un po’ perché la presenza degli uomini in quel preciso contesto non era molto gradita. Ricordo che l’anno prima ero andato alla stessa manifestazione preso a braccetto con la mia fidanzata, ma nonostante questo venni invitato ad allontanarmi in maniera neanche tanto cortese».

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La nascita dei collettivi. L’onda femminista comincia a sollevarsi visibilmente nel 1974, con la battaglia per il referendum sul divorzio (alla fine, come si sa, prevalse il “no” all’abrogazione della legge e in Sardegna i dati della vittoria segnarono un clamoroso 55,2 per cento, la percentuale più alta del Mezzogiorno). Ma l’impegno dei collettivi è precedente. A ricostruirne minuziosamente la genesi sono Annalisa Diaz e Alida Manca nel fondamentale volume intitolato “Memorie del movimento delle donne degli anni Settanta - Contributi per una storia del femminismo in Sardegna”, a cura del Centro di documentazione e studi delle donne. «A Cagliari – si legge – nel ’72 nasce il primo collettivo femminista della città, quello di via Donizetti, composto da donne di varia provenienza politica che si riuniscono in una sede di partito, in totale autonomia». Organizzazioni analoghe, tuttavia, si sviluppano ben presto in quasi tutta l’isola. «A Sassari – ricordano sempre Annalisa Diaz e Alida Manca – il femminismo si organizza intorno al collettivo più direttamente espressione della componente femminile dei movimenti extraparlamentari ma coinvolge, pur non senza contrasti, anche le donne dei partiti della sinistra storica. Nel ’76 su iniziativa del collettivo vengono aperti una sezione dell’Aied e un gruppo, “La Civetta”, che svolge attività culturali. A Nuoro il gruppo attivo era rappresentato dell’Udi, che operava insieme con quello di Gavoi».

Le battaglie. Maria Giovanna Piano, docente di Filosofia e protagonista del femminismo in Sardegna, ricorda quali argomenti animavano i dibattiti delle assemblee. «Tra il ’75 e il ’77 – spiega – si supera il periodo dell’autocoscienza e decolla la cosiddetta politica del fare. Nascono tanti luoghi sociali femminili, che poi si evolvono, come il Centro di documentazione o la Libreria delle Donne. In questi spazi si mette in discussione la centralità maschile del sapere: in sostanza rifiutavamo di interpretarci con le stesse categorie formulate dagli uomini. E si prendeva consapevolezza che le donne da sole sono in grado di reggere la società». Poi, naturalmente, tra i temi più affrontati spiccano quello sulla legge contro la violenza sessuale e quello sull’aborto. Nelle sezioni di partito e nei gruppi autonomi le attiviste discutono e si confrontano, talvolta in maniera accesa.

Alessandra Piras, ora insegnante, all’epoca era una studentessa e faceva parte del Collettivo di via Donizetti. Le sue memorie sono conservate in un diario personale che si premurava di compilare ogni giorno. Il 18 febbraio del 1977 riporta: «Giornata molto importante. Al collettivo femminista abbiamo finito di scrivere i manifesti sull’aborto. Lo scopo è quello di divulgare le nostre idee all’interno della scuola, richiamare l’attenzione su un problema così sentito da tutte (o quasi) le donne, cercare di coinvolgere le ragazze». La battaglia si può dire vinta quando il 22 maggio del 1978 il parlamento approva la “Legge 194” sulle «norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza». Un successo importantissimo lasciato in dono alle future generazioni. «Con quella legge – commenta ora Alessandra Piras – si è cominciato a mettere fine al tremendo fenomeno degli aborti clandestini, una vergogna che teneva l’Italia indietro rispetto ai più civili Stati europei. Prima di quel provvedimento l’interruzione volontaria di gravidanza, in qualsiasi sua forma, era considerata dal codice penale italiano un reato». Più lento sarà il percorso legato ai delitti di violenza carnale e di atti di libidine violenti, che – sembra incredibile – sino al febbraio del 1996 per il nostro codice penale rientravano all’interno della categoria dei reati contro la moralità e il buon costume e non in quella più corretta di reati contro la persona.

L’eredita. Ma che cosa resta di quegli anni eccezionali? Che eredità è stata lasciata alle bambine del Duemila? «Resta indubbiamente una libertà femminile che adesso le donne danno per scontata, ma che allora non lo era affatto – risponde Maria Giovanna Piano– . Le donne sono vive, non sono più dominabili, si autodeterminano. E questo ha scatenato in quegli uomini che ancora non accettano questa emancipazione una forma reattiva capace di sfociare, come tutti tristemente vediamo, negli episodi di femminicidio. Adesso, a pensarci bene, la crisi è soprattutto maschile».
 

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