La Nuova Sardegna

Scrittori di Sardegna: le donne di Giacobbe, i sentimenti nel solco della Storia

Costantino Cossu
Scrittori di Sardegna: le donne di Giacobbe, i sentimenti nel solco della Storia

Nella collana ecco “Chiamalo pure amore”. La scrittrice nuorese e il gioco sottile delle emozioni 

07 marzo 2018
4 MINUTI DI LETTURA





Maria Giacobbe è nata a Nuoro nel 1928. Il suo percorso biografico arriva quindi sino ai primi due decenni del 2000 dopo aver attraversato gran parte del Novecento. Giacobbe vive in Danimarca dal 1957, anno in cui esordì come scrittrice con Diario di una maestrina (Premio Viareggio). Il libro raccoglieva una testimonianza autobiografica in presa diretta di un periodo cruciale per la storia italiana. L’infanzia di Maria, la protagonista, è segnata dal ventennio fascista. Il padre è esule per motivi politici: è un antifascista militante e va a combattere in Spagna con i repubblicani. E poi la guerra, che arriva con il suo carico di dolore e di miseria anche a Nuoro. Maria tiene duro. Studia e diventa maestra, in Barbagia. I suoi alunni sono figli di una regione che nel dopoguerra affronta il passaggio, per molti versi drammatico, dall’arcaico e immobile universo agro-pastorale alla modernità. A scuola i codici universalistici della cultura borghese, veicolata da una lingua “straniera”, l’italiano, si scontrano con i codici della tradizione. L’insegnamento diventa il terreno privilegiato di osservazione di mutamenti rapidi e radicali, che investono l’intera società sarda disarticolandone strutture sociali e minando secolari sistemi di valore. Il tutto attraverso la narrazione dell’esperienza di una donna, con i suoi dubbi, le sue paure, le sue speranze, il suo lavoro.

Sin dal libro di esordio, quindi, la scrittura di Maria Giacobbe si caratterizza per la convivenza di due elementi: impegno civile e analisi dell’universo femminile, con un’attenzione particolare al mondo dell’infanzia e dei rapporti familiari. Temi presenti in tutti i suoi libri successivi: Il mare; Maschere e angeli nudi; Il ritratto d’un’infanzia; Scenari d’esilio; Gli arcipelaghi; Le radici; Pòju Luàdu; Euridice; Memorie della farfalla. E Chiamalo pure amore, il titolo che la Nuova Sardegna propone ai lettori, da questo venerdì, nella collana “Scrittori sardi contemporanei”. Una linea seguita da sempre e confermata in questa intervista alla Nuova.

Qual è il suo terreno privilegiato di interesse e di ricerca nel campo della scrittura?

«Credo che ogni individuo – scrittore o analfabeta, biondo o bruno, ricco o povero, meridionale o settentrionale, nato ricco o schiavo – sia, in ogni momento della sua esistenza, la somma di ciascuna delle sue esperienze di vita. Fra queste, le più profonde e indelebili, nel bene e nel male, sono a mio parere, quelle dell’infanzia. Motivo per cui, come lettrice, come autrice e come persona, ciò che mi interessa maggiormente nei personaggi e in ogni essere umano è il punto di partenza, la condizione infantile e l’impronta che questa ha lasciato in essi, gettando le basi per l’adulto che sono diventati».

Il tema dell’identità sarda è presente in molti dei testi della collana “Scrittori sardi contemporanei”. Come lo si può declinare oggi, in un passaggio storico nel quale la parola identità è diventata scivolosissima e forse anche pericolosa?

«Sì, scivolosissima e forse pericolosa. Della pericolosità micidiale del tema mi resi conto nei primi anni Settanta quando, durante la crisi petrolifera, la Danimarca, dove vivevo e vivo senza essermi mai pentita della scelta, riscoprì il fenomeno della disoccupazione, che era stato quasi dimenticato. Le fabbriche chiudevano, era un momento difficile. Con i discorsi sull’identità, sulle differenze culturali, sui diritti dichiarati indiscutibili degli autoctoni e sulla pericolosità dei “diversi”, alcune parti politiche scaricarono sugli immigrati la responsabilità del problema, che aveva radici ben più lontane. E automaticamente quelli che nell’ultima decina d’anni erano diventati una parte integrante e indispensabile dell’economia del Paese, ora venivano definiti “un peso insostenibile e ingiusto, un pericolo sociale e una minaccia culturale per i nativi”. Il discorso sull’identità passò dalle accademie, dove prima risiedeva come materia di studi antropologici, alla bocca di tutti. E ne nacque un nuovo partito populista e conservatore. A causa dei miei indiscutibili connotati mediterranei, che potevano agevolmente farmi scambiare per un’immigrata turca o nordafricana, anche se protetta dalla mia condizione sociale di privilegiata, sentii direttamente il peso e la disumana ingiustizia di quei pregiudizi e di quelle argomentazioni pseudo colte, che oggi purtroppo percorrono anche la nostra bella e civile Italia e la nostra Sardegna».

“Chiamalo pure amore” è un libro tutto al femminile. Quattro donne diverse, un’unica condizione, quella femminile, che le accomuna. Dagli anni Quaranta ad oggi, quale percorso storico, ma anche di consapevolezza individuale e di evoluzione dei sentimenti, compiono nel suo libro?

«Abbiano parlato di disumana ingiustizia e di pregiudizi a proposito dei pericoli insiti nel concetto di identità. Potrei estendere il discorso alla condizione femminile, secondo me ancora oggi molto esposta, anche nel mondo cosiddetto civile. Ma preferirei non farlo in questa intervista. Perché l’ho già fatto attraverso le quattro storie di Chiamalo pure amore. E in tutti i miei altri libri.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Il nuovo decreto

«La mannaia sul Superbonus devasterà tantissime vite»

di Luigi Soriga
Le nostre iniziative