La Nuova Sardegna

«Quanto è diventato triste il mio Mediterraneo»

di Grazia Brundu
«Quanto è diventato triste il mio Mediterraneo»

Intervista con l’attore Giuseppe Cederna, in Sardegna con lo spettacolo “Da questa parte del mare”

10 marzo 2018
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SASSARI. Il Mediterraneo, per Giuseppe Cederna, è da sempre una presenza familiare. All’inizio come luogo del mito, quando, ricorda, «fin da bambino, attraverso mio padre Antonio, che è stato archeologo prima che urbanista e giornalista, ho scoperto l’Odissea, il Peloponneso, le isole dell’Egeo. Posti dove torno in vacanza ogni anno». Poi, nel 1991, è stato il soldato-poeta Antonio Farina nel “Mediterraneo” premio Oscar di Gabriele Salvatores. Adesso per lui, da culla della civiltà e dell’Europa il mare nostrum diventa scenario della tragedia collettiva dei migranti nella pièce “Da questa parte del mare”. Stesso titolo di un disco e di un libro del cantautore piemontese Gianmaria Testa, molto amico dell’attore romano, scomparso nel 2016 a soli cinquantasette anni di età. Cederna arriva stasera alle 21 al Teatro San Bartolomeo di Meana Sardo (organizzazione Cedac), dopo essere stato a Carbonia e a Nuoro. In scena, diretto da Giorgio Gallione, è solo, nei panni di un testimone-narratore.

La scenografia, essenziale, ha il suo fulcro in uno stagno in miniatura: metafora amara di un Mediterraneo solo all’apparenza innocuo e unificante. Il punto di partenza, spiega l’attore, nato a Roma ma sardo, di Isili, da parte della famiglia materna, «è il materiale, canzoni, testi, che Gianmaria ha iniziato a raccogliere dal Duemila. Fin dai primi sbarchi dei profughi albanesi, a Brindisi, lui aveva capito che le migrazioni sarebbero diventate il grande evento drammatico dei nostri anni». È così che vede la luce il libro “Da questa parte del mare”, pubblicato postumo da Einaudi, e ancora prima un disco con lo stesso titolo (Targa Tenco 2007). Quelle canzoni, di una profondità ed esattezza che commuove, dice Cederna, che parla sempre di Testa come fosse presente «sono parte integrante di ciò che racconto: entrano ed escono come un’acqua del mare, una corrente continua».

Nello spettacolo, le parole del cantautore-ferroviere non sono sole. La regia cuce insieme testi scritti dallo storico Marco Revelli (la pièce si apre con un suo pezzo che racconta il cimitero di Lampedusa, con i sassi e le scritte a carboncino, per anni unica testimonianza dei migranti morti in mare) e di Alessandra Ballerini, avvocato specializzato in diritti umani e immigrazione.

Il momento più coinvolgente è la parte in cui l’attore racconta un’esperienza vissuta in prima persona. «Due anni fa – ricorda – durante una vacanza con la mia compagna nelle isole del Dodecaneso, ho incontrato per la prima volta centinaia di migranti fuggiti dalla Siria, dal Kurdistan e dalla Turchia. E non mi sono limitato a vederli, a capire che erano uguali a me e allo stesso tempo diversi. Mentre scendevo dal traghetto – prosegue – un poliziotto greco mi ha scambiato per uno dei migranti e mi ha spinto violentemente verso la loro fila. Io reagisco, mi divincolo. Poi, mentre mi allontano con la mia carta d’identità faccio fatica a trattenere le lacrime». Da quella commozione, forse anche da un irrazionale senso di colpa, nasce il bisogno di testimoniare. Attraverso il teatro, che per Cederna, più ancora dei dibattiti in tv, ha il compito di «farci chiedere che uomini e donne vogliamo essere e farci restare umani». Magari ricordandoci come eravamo. Per questo “Da questa parte del mare”, conclude Cederna, «finisce con il ricordo della mamma di Gianmaria, che durante un matrimonio di contadini, nell’Italia povera degli anni Sessanta, si commuove cantando canzoni di emigrazione».

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