La Nuova Sardegna

«Formare registi in Sardegna? Sì, ma senza creare illusioni»

Fabio Canessa
«Formare registi in Sardegna? Sì, ma senza creare illusioni»

Di corsi sulla “settima arte” nell’isola si è discusso al festival Terre di confine. Le occasioni di apprendimento non mancano, ma il mercato spesso è spietato

14 marzo 2018
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SOLARUSSA. Non rinunciare a coltivare un sogno, senza però farsi illusioni. Perché la motivazione è necessaria, ma la strada difficile, il mercato del cinema spietatamente ristretto. Gli strumenti per tentare di affrontare il percorso al meglio vengono oggi offerti da sempre più scuole di vario tipo. Di alta formazione per lo sviluppo del cinema in Sardegna si è discusso a Solarussa in un incontro organizzato all’interno del festival “Terre di confine”. «Quando mi hanno affidato la direzione artistica – dice il regista Marco Antonio Pani – ho pensato subito che potesse essere un’occasione per parlare anche di didattica del cinema. In Sardegna c’è stato un forte sviluppo rispetto a quando ho iniziato io». A discuterne con Pani, Antioco Floris dell’Università di Cagliari e fondatore del Celcam (Centro per l’educazione ai linguaggi del cinema, degli audiovisivi e della multimedialità), Enrico Pau e Salvatore Mereu, Davide Bini e Lorenzo Hendel dell’Accademia di Belle Arti di Sassari, Daniele Maggioni che per anni ha diretto la Scuola di cinema di Milano.

Cambiamenti e risultati. La prospettiva del cinema in Sardegna cambia intorno alla metà degli anni Novanta, quando l’isola comincia a essere raccontata da registi sardi. «Si è iniziato a pensare – spiega Antioco Floris – a come formare le competenze cinematografiche a livello locale. L’affermarsi della tecnologia digitale ha aumentato l’attenzione e poi la questione è diventata forte negli anni Duemila con il dibattito sulla legge cinema». Il Celcam fondato da Floris nasce nel 2007. «E negli ultimi anni la continuità di investimento – sottolinea – ha prodotto ottimi risultati. Parte consistente dei giovani sardi che lavorano oggi nel cinema sono passati da noi. Nei corsi di approfondimento coinvolgiamo professionisti, come Pau e Mereu, e i ragazzi possono cimentarsi sul set. Alcuni lavori realizzati con gli studenti hanno avuto riscontri importanti. L’anno scorso due corti sono stati a Venezia».

Teoria e pratica. Anche l’Accademia di Belle Arti si è aperta sempre più al cinema. «All’interno dei nostri corsi triennali – racconta il docente Davide Bini – non c’è in realtà niente di specifico, ma dentro arte e media ci sono materie sul cinema. L’obiettivo che mi pongo con i nuovi studenti è all’inizio aprire a una visione più d’autore e poi fargli fare un apprendistato, esercitazioni che mettono in moto qualcosa e li spingono a pensare come possono sviluppare la loro idea di mondo e di cinema. Cosa vogliono raccontare e come. Per arrivare così al terzo anno con un’idea più chiara anche di loro stessi». Dal 2017 l’Accademia propone inoltre un biennio specialistico di cinema documentario curato da Lorenzo Hendel. «Anche con delle masterclass tenute da importanti registi internazionali – evidenzia Hendel – cerchiamo di offrire una panoramica dei differenti approcci: tematico, osservazionale, narrativo. Le tre anime del documentario sulle quali lavoriamo con gli studenti anche dal punto di vista pratico, produttivo».

Pericoli e prospettive. Insomma le possibilità di formazione non mancano. Ma il mercato del lavoro? «Bisogna stare attenti – sottolinea Daniele Maggioni – a non formare una massa di utopistici disoccupati. Lo spazio reale di mercato è ridotto e bisogna essere chiari, onesti. Lo strumento audiovisivo permette oggi una possibilità di espressione allargata, e questa è già una cosa importante, ma un altro discorso è viverci». Aspetto sul quale si sofferma anche Salvatore Mereu: «C’è un problema morale dietro la formazione, non possiamo vendere l’illusione che l’accesso alla professione sia scontato con un corso. Questo non vuol dire che bisogna tornare indietro, quelli della mia generazione hanno dovuto fare i salti mortali per formarsi». Più ottimista Enrico Pau: «Non mi piace un freddo ragionamento legato al mercato, non possiamo dire ai ragazzi che l’unica possibilità che hanno è formarsi dentro le grandi scuole di cinema e da lì entrare nella grande industria cinematografica che appiattisce tutto. Io non sono pessimista, penso al futuro, stiamo creando degli artigiani e la cosa darà dei frutti in un meccanismo diverso dal cinema che si fa a Roma».

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