La Nuova Sardegna

La guerra tra generazioni ai tempi dello spopolamento

di Fabio Canessa
La guerra tra generazioni ai tempi dello spopolamento

Il regista originario di Badesi parla del corto “A casa mia”, premiato con il David di Donatello

17 marzo 2018
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Lo spopolamento e la perdita di autenticità del territorio, la solitudine degli anziani e il disagio delle nuove generazioni. Tutto portato sullo schermo con «severo rigore nelle scelte di regia e sceneggiatura» come si legge nella motivazione della giuria dell’Accademia del Cinema Italiano che lo ha premiato l’anno scorso con il David di Donatello per il miglior cortometraggio. “A casa mia” ha regalato grandi soddisfazioni a Mario Piredda, regista di Badesi che ha lasciato l’isola dopo il diploma per trasferirsi a Bologna. «Ma in Sardegna ritorno spesso – racconta Piredda, ospite nei giorni scorsi del festival “Terre di confine” organizzato dall’associazione Su Disterru – e quando scrivo delle storie preferisco ambientarle e girarle qua. Quando vai via senti il richiamo della tua terra, della tua isola, delle tue radici. Magari fino a poco prima di partire non ci avevi mai pensato, ma quando sei fuori senti questa nostalgia e forse per questo mi viene naturale tornare in Sardegna per raccontare delle storie».

Questa di “A casa mia” quando nasce?

«Il soggetto era già pronto nel 2011, ho tentato di produrlo ma non ci sono riuscito. Poi, impegnato anche in altre cose, lo avevo un po’ accantonato ma grazie a Ivan Olgiati di Articolture che voleva lavorare con me l’ho tirato fuori dal cassetto. A lui è piaciuta tantissimo la storia, abbiamo provato e vinto il bando della Regione Sardegna, poi anche quello del Ministero e siamo dunque partiti con la realizzazione».

Aveva già individuato la location?

«Era già nella mia testa. Quando scrivi pensi a un posto, che magari manco esiste. Questo esisteva già, lo conoscevo bene. La spiaggia di Vignola che è vicina al mio paese: Badesi».

Tra i temi affrontati c’è quello dello spopolamento. Lei quando ha deciso di lasciare il suo paese e la Sardegna?

«Ho studiato ragioneria a Tempio, ma già dal primo anno ho capito che non era la mia strada, che avrei volevo fare qualcosa di artistico. Sono comunque andato avanti con l’intenzione di scegliere cosa fare dopo il diploma. Presa la maturità sono partito a Bologna per il Dams e lì mi sono fermato».

Ma dove nasce la sua passione per il cinema?

«Da giovanissimo. Guardavo di tutto. Poi gli studi un po’ ti indirizzano e capisci quali film preferisci. Ultimamente sto guardando molto cinema nordico. Però se logicamente le influenze ci sono, anche senza che uno se ne accorga, mi sforzo di essere sincero, di fare il mio cinema, di proporre la mia visione della storia che scrivo». [

Quali sono stati i primi passi dopo il periodo di studio?

«Ho iniziato a fare i primi corti con gli amici e poi a lavorare come stagista, volontario, su qualche set. Una delle prime esperienze è stata come assistente di Gianfranco Cabiddu in un lavoro che racconta la storia della miniera di Montevecchio. Nelle stesse zone ho fatto in seguito il mio primo, vero corto dopo aver vinto il bando Avisa promosso dall’Isre: “Il suono della miniera”. Qualche anno dopo ho realizzato “Io sono qui”, sempre ambientato in Sardegna, che ha avuto diversi riconoscimenti ed entrato nella cinquina finalista al David di Donatello 2011. Allora però non ho vinto».

Invece sei anni dopo è arrivato il premio. Nel frattempo ha lavorato su che cosa?

«Dopo “Io sono qui” sono partito a Cuba, un po’ all’avventura, insieme a due colleghi e amici, un direttore della fotografia e un montatore. Abbiamo preso una casa nella periferia dell’Avana e siamo entrati nel tessuto sociale del posto. La notte andavo a dormire e mi venivano mille storie in testa che volevo raccontare. Ci siamo ripromessi di tornare per fare qualcosa e invece una notte non ho dormito e ho scritto una sceneggiatura, l’ho fatta leggere a loro e ci siamo convinti a sfruttare le ultime due settimane di vacanze per girare qualcosa. Abbiamo coinvolto un po’ di persone, tutto il quartiere ci ha aiutati, e abbiamo girato un piccolo corto intitolato “Los aviones que se caen” che poi ha girato festival in tutto il mondo. Dopo mi sono un po’ fermato, ho fatto qualche anno lavorando come videomaker. Soprattutto nel musicale, seguendo gruppi come Litfiba e Negramaro. Finché con Ivan Olgiati di Articolture è partita l’avventura produttiva di “A casa mia” e poi il percorso del film».

Dopo questi corti di successo è pronto a cimentarsi con un lungometraggio?

«Sì, ci stiamo lavorando, sempre con Articolture. Abbiamo vinto lo sviluppo della sceneggiatura del bando regionale e quello come produzione di opera prima. Già da un po’ è partito lo scouting per le location, da quel punto di vista ormai ci siamo, e adesso sto cercando la protagonista che nella sceneggiatura è una ragazza di 17 anni. Ne ho già visto qualcuna, ma voglio prendermi il tempo per la ricerca perché in un lungometraggio non puoi sbagliare la scelta».

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