La Nuova Sardegna

“Undici”, la voce dei migranti diventa racconto

di Alessandro Marongiu
“Undici”, la voce dei migranti diventa racconto

Domani per la collana Scrittori di Sardegna il romanzo di Savina Dolores Massa

05 aprile 2018
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È la notte del 25 dicembre 2005, e da Capo Verde, più precisamente dal porto di Praia, una cinquantina di uomini, salita su un’imbarcazione dall’aspetto non troppo rassicurante, spera di raggiungere le Canarie, per farsi una nuova vita o per aiutare la famiglia lasciata a casa. Ognuno ha pagato tra i milleduecento e i millecinquecento euro a un tale spagnolo, Robledo, che è lì sull’imbarcazione ma che, appena prima della partenza, ne salta giù. In pochissimi, intuito a quale destino si andrà incontro, riescono a seguirlo e a tornare sulla terra ferma. Gli altri restano a bordo. Più avanti, in mare, si verifica l’episodio peggiore, ammesso che in circostanze simili si possa stabilire primati o classifiche di un qualche genere: da una nave che si è avvicinata, ai quarantasette che hanno preso il largo viene lanciata una fune. Per loro potrebbe essere la salvezza, e invece è il punto di non ritorno: quella nave nemica li trascina nelle immensità senza appiglio alcuno dell’Oceano Atlantico, finché i trafficanti che la conducono non tagliano la fune e se ne vanno. Passano i giorni, quasi la metà di un anno. È la mattina del 29 aprile, e in acque non distanti dalle isole Barbados la guardia costiera, allertata da un pescatore, approccia una «piccola barca bianca» e la traina «nel porto di Bridgetown». Per i medici legali i ritrovati, e sono solo undici dei quarantasette iniziali, sono «tutti morti dopo il primo dei quattro mesi della deriva verso le Barbados». Nelle settimane successive al decesso – ulteriore, terribile dettaglio – gli elementi atmosferici hanno prodotto una sorta di mummificazione dei cadaveri.

Fin qui la cronaca degli eventi così come la ricostruiva Giovanni Maria Bellu su La Repubblica del 6 giugno 2006, dopo che dalla Spagna la notizia si era diffusa in tutta Europa, e da qui la volontà, l’urgenza potremmo definirla, di Savina Dolores Massa di dare una voce, e con essa una dignità, a quelle vittime. “Undici”, l’opera d’esordio dell’autrice oristanese, che da domani i lettori de La Nuova troveranno in edicola per il decimo appuntamento con la collana “Scrittori di Sardegna” (a 6,70 euro oltre al prezzo del quotidiano), nasce proprio da questa urgenza interiore. Impossibile forse, davanti a vicende come queste, imbastire una narrazione classica, da romanzo: ed ecco allora che la Massa, interpretandole con la sua arte, si fa tramite delle parole dirette degli undici, colti nell’istante che precede l’ultimo respiro, attraverso pagine in cui si uniscono i toni e i modi tanto della poesia quanto del monologo teatrale.

Conosciamo così Baba dal fisico guasto; Amdy che non è riuscito a salvare i suoi due giovani nipoti e non si dà pace; Bilal che costruiva piroghe; Pape che studiava da architetto; Laamin l’artigiano; Momar che reclama il diritto a una morte lucida; Ibou che ha perso la moglie in un incendio e che grida contro ogni forma di immortalità; Djibril che non sa dimenticare l’amata Maria Maddalena; Ibra l’accusato di complicità e tradimento; Mor il matto che porta il disordine; infine Sayoro, il griot, colui che in Africa conserva e trasmette la memoria di un villaggio e della sua gente, spesso accompagnandosi con uno strumento tradizionale, la kora. Tocca a quest’ultimo il compito di raccogliere il saluto al mondo dei dieci sventurati, per poi pronunciare il proprio: spiegando al fratello Djibril perché ha camminato così a lungo accanto a Maria Maddalena (l’amavano forse entrambi?), e chiedendo alla kora, lui che non ha avuto figli e non ha potuto tramandare a nessuno né il ruolo né i saperi di groit, di farsi ricordo e testimonianza degli accadimenti.

È un libro toccante, questo, che vive delle specifiche vite che evoca, ma che in maniera inevitabile possiede un raggio ben più ampio comprendente tutte quelle altre vite che si sono spente in precedenza e che ancora oggi, purtroppo senza sosta, si spengono in situazioni identiche. È «il canto degli umili, degli invisibili alla Storia, della fatica nella sopravvivenza», ha detto Savina Dolores Massa nel corso di un’intervista di alcuni anni fa: un canto spontaneo, doloroso, lontano dal pietismo e dall’autoesaltazione di sé che non di rado si nasconde dietro la facciata dell’impegno in pubblico. «Non desidero medaglie quando scelgo di raccontare la realtà, spesso crudele per molte fasce di esistenze», ha concluso la Massa.

Recensendo “Undici” per “La poesia e lo spirito”, Giovanni Nuscis ne ha sottolineato la scrittura «sorprendente, che entra nel gorgo ematico di esistenze sconosciute per parlare a loro, come loro, e in nome loro con sensibilità rara, di sapienza antica così affine ad esse; da ascoltare e riascoltare, anche, come un monito indiretto, forte come un urlo nella notte, di questa nostra notte epocale». Per Antonio Fiori, che ha recensito a sua volta il libro sul blog di Nuscis, siamo davanti a un «lavoro coraggioso, dai tratti ora epici, ora realistici con una scrittura in ardito equilibrio tra prosa poetica, invettiva e lamentazione. Savina Dolores Massa ha saputo dare identità e vita letteraria a quei corpi anonimi e mummificati e ci ha dimostrato come si possa coniugare l’amore per la scrittura con quello per la verità».

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